La vendita di Yosef da parte dei suoi fratelli è una storia emblematica. Triste immaginare il momento in cui dopo averlo gettato in un pozzo, vuoto di acqua, pieno di scorpioni e serpenti, decidono di tirarlo fuori, per venderlo come schiavo. Primo figlio di Rachel, ritenuto un miracolo data la sua sterilità, egli crebbe come un figlio prediletto. Non faceva il lavoro duro nei campi, ma veniva salvaguardato. Destinato allo studio, bellissimo come pochi, vestito con una tunica multicolore regalata solo a lui. Qualcuno sostiene che i fratelli, nonostante la loro gelosia e la loro rabbia comprensibile, durante la vendita piangessero. Erano degli ‘tzadikim’, sapevano che stavano compiendo una cattiva azione: tutto questo era parte di un progetto architettato dal Creatore e si sarebbe conosciuto l’epilogo a posteriori.
Scelsero di venderlo come schiavo perché avevano visto in lui superbia e vanità. I compratori erano disposti a pagare solo venti pezzi d’argento, dato che era pallido e consunto (Sefer Hayashar). Con il denaro ricevuto acquistarono delle scarpe. Queste simboleggiavano il castigo inflitto per la sua arroganza, così lo avrebbero calpestato, piuttosto che lasciarsi calpestare.
Il peccato della vendita di Yosef non fu espiato fino alla morte delle tribù. In seguito, ebbe ripercussioni: per riparare tale colpa vennero uccisi dieci grandi ‘tannaim’, gli ‘assarà harughè malkut’, martiri del governo romano in epoche differenti. L’imperatore ordinò di riempire la reggia di scarpe e fece giungere i dieci saggi, decretando la loro morte secondo la norma della Torah: ‘Mot Yumat’! Dovrà morire chi ha rapito e venduto. “Persino se il rapitore avesse venduto quell’ebreo per tutte queste scarpe, il suo giudizio sarebbe stato invariato?” domandò il Cesare.
Le scarpe, unico capo di abbigliamento per cui non si recita la berachà di Sheecheianu, anche se si è soddisfatti del loro acquisto, perché toccano la terra qualcosa di sporco. La berachà attribuita è inserita nelle ‘birchot ashachar’, in una forma al singolare: “Benedetto Tu, Eterno nostro re dell’universo, che mi hai procurato tutto ciò di cui ho bisogno”. Tale formula non si pronuncia nel giorno di Kippur, né il 9 di av. Ogni ebreo quotidianamente recita l’Amidà, per tre volte al giorno, chiede qualcosa di semplice ma molto preziosa nella parte finale: l’umiltà. Hashem fai sì che la mia lingua si guardi da discorsi malvagi e le mie labbra si guardino dal pronunciare inganni e che io pazientemente sopporti chi mi offende e che mi presenti premuroso all’esecuzione dei Tuoi precetti, e sia umile con tutti. Le calzature, simbolo di umiltà e di separazione.
La parola scarpa ‘naal’, (nun, ain, lamed) compare ventidue volte nel Tanach, è legata all’idea di bloccaggio, poiché sigilla il piede e permette al corpo di camminare in sicurezza. Il verbo che si costruisce con la sua radice significa chiudere a chiave, serrare. La scarpa protegge il piede, è il punto di contatto tra uomo e terra. Essa rappresenta il modo in cui l’uomo interagisce con il mondo materiale, senza contaminarsi spiritualmente, affinché resti protetto ciò che è all’interno da quello che avviene esternamente.
Nella tradizione mistica la calzatura è una metafora del corpo umano che calza la neshamà. Secondo Rav Chaim di Volojin, nella sua opera ‘Nefesh HaChaim’, l’essenza dell’uomo è piantata in alto, nella radice della sua anima, per questa ragione il corpo è chiamato scarpa. Il fisico è soltanto una vestaglia che ospita la luce divina, la parte immortale e pura dell’individuo. Il corpo è il contenitore temporaneo che protegge e da forma all’anima durante la sua esistenza terrena. Questa visione evidenzia una delle tensioni centrali nell’ebraismo: la relazione tra mondo materiale e mondo spirituale. Il corpo è finito, imperfetto, legato allo spazio e al tempo. L’anima è infinita, eterna e divina. Una scintilla di Hashem stesso discende nel corpo di ogni uomo creato a Sua immagine e somiglianza, per elevarsi e compiere il suo scopo sulla terra.
La nostra vita è un susseguirsi di impegni ed imprevisti quotidiani. Il cammino può attraversare fasi alterne tra successi e fallimenti in ogni ambito. Quando qualcosa accade, ci sentiamo spiazzati perché non sempre riusciamo a pensare che è solo una parte del dipinto. Vediamo un pezzo della fotografia. Da schiavo a viceré Yosef hazadik ne è l’esempio più calzante.