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    Parashà di Bemidbàr: Un popolo senza analfabeti

    Questa parashà inizia con il censimento degli uomini soggetti alla leva militare, cioè di quelli di età da 20 a 60 anni. Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco), spiega che la Torà prescrive che non si è soggetti alla leva se di età inferiore a vent’anni. Questo perché fino a vent’anni non si è sufficientemente forti per andare in guerra. Egli cita un insegnamento parallelo nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 5:25) dove è scritto “Vent’anni a inseguire”. Tuttavia egli aggiunge che è possibile che l’espressione “tutti quelli soggetti alla tzavà” non significhi “tutti i soggetti alla leva militare” ma piuttosto “tutti coloro che hanno diritto di partecipare alle riunioni comunitarie” perché questo è un altro significato della parola “tzavà”.

                In ogni modo era permesso censire il popolo solo se vi era necessità di farlo. Non come fece erroneamente re David quando inviò il generale Yoàv a fare un censimento per conoscere il numero dei censiti (II Shemuèl, cap. 24). Per questo r. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta che questo censimento dei soggetti alla leva era necessario perché a questo punto il popolo si preparava ad entrare nella terra d’Israele e a rimuovere i cananei. 

                Allo scopo del censimento Moshè e Aharon “radunarono tutta la comunità nel primo giorno del secondo mese (Vaykrà, 1:18), cioè nel capo mese di Iyàr. Il Nachmanide chiarisce che il censimento non fu fatto in un giorno. 

                R. Meir Leibush Wisser detto Malbim (Ucraina, 1809-1879) aggiunge che nel versetto seguente è scritto che Moshè “li contò nel deserto del Sinai” per indicare che il conteggio proseguì per tutti i venti giorni nei quali il popolo fu accampato nel deserto del Sinai e solo dopo la conclusione del censimento si avviarono verso la terra d’Israele. 

                Come venne fatto il conteggio? Nel versetto è scritto: “Vennero registrati  secondo l’appartenenza alle loro famiglie, per casato paterno, contando i nomi di coloro che avevano dai vent’anni in su” (ibid. 18).

                R. Chayim Yosef David Azulai detto Chidà (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) fa notare che la Torà usare l’espressione “contando i nomi”per mostrare come ognuno dei figli d’Israele sia caro all’Eterno. Il contrario avviene quando una persona è odiata. In quel caso non si vuole menzionare il nome della persona. Per questo il re Shaùl che odiava David, lo chiamò “figlio di Yishai”, mentre suo figlio Yonatàn che lo amava, lo chiamò per nome.

                Il Nachmanide cita anche un Midràsh dove è scritto che il Santo Benedetto disse a Moshè  di contare i nomi di ognuno con “onore e grandezza”, e non di farsi dare il numero dei figli da ogni capo famiglia. L’espresione “onore e grandezza” significa che ognuno si presentò  personalmente a Moshè  e ad Aharon  in modo che Moshè ed Aharon potessero dare loro una benedizione e pregassero che l’Eterno avesse misericordia di loro. 

                 Rashì (Troyes, 1040-1105)nel suo commento al secondo versetto della parashà afferma che il conto venne fatto con i sicli, come nel censimento precedente.

                R. Naftali Tzvi Yehuda Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia), evidentemente basandosi sul fatto che nella parashà  non vengono menzionati i sicli, spiega invece che ogni individuo si presentò a Moshè e Aharon con una “pitka” (una tavoletta) sulla quale era scritto il suo nome e l’età.

                Se fu così, questa può essere un’indicazione che nel popolo d’Israele on vi erano analfabeti tra gli uomini adulti. 

                                       

                                       

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