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    MEMORIA DELLA SHOAH: L’OTTIMISMO DELLA VOLONTA’ NON BASTA PIU’

    Improvvisamente,
    alla metà degli anni Ottanta del secolo passato, l’onda compressa della memoria
    rompe gli argini. Ma libri, memorie, informazioni erano disponibili da almeno
    trentacinque anni. Adesso, per tutti coloro che vogliono conoscere e sapere,
    gli strumenti necessari per la definizione della realtà storica esistono anche
    sui palcoscenici istantanei della cultura di massa. Disegnano un nuovo profilo,
    mostruoso, per l’identità profonda dell’Europa. Durante i cinque anni della
    conquista nazista troppi buoni europei “ariani” per decreto non s’erano
    limitati a sopportare il Terzo Reich: avevano collaborato, spesso con
    entusiasmo. Come i cinquecentomila che il 10 giugno 1940 a Piazza Venezia
    osannavano Mussolini per la dichiarazione di guerra. Ricordi scomodi,
    soprattutto in Italia. Il tempo passa in fretta ed è implacabile. Col pretesto
    della necessità di ripensare certe stanche giornate della memoria e dar voce a
    tutte le vittime di tutti i massacri della storia umana, ecco allora che si può
    anche giocare al gioco d’azzardo del revisionismo strisciante. Quasi si volesse
    incoraggiare il dubbio che gli ebrei hanno fatto scelte differenti, che pensano
    sempre e soltanto ai casi propri. Eppure, la replica è semplice: le vittime di
    un crimine sono tutte uguali. Ma è la qualità del criminale a rendere unica la
    Shoah. Buoni e onesti cittadini pronti a trasformarsi in spietati criminali
    abitavano nella civilissima Germania, intorno al 1930.  Se un disperato mi accoltella per togliermi i
    pochi soldi che normalmente tengo nel portafoglio, io sono morto e certo
    nessuno potrà resuscitarmi. Il colpevole, se trovato, sarà processato e
    sconterà molti anni di prigione. Ma fermiamoci su un caso differente. Dunque ad
    uccidermi è stato un dotto professore, il quale abita accanto a me, al mio
    stesso piano. Certamente non aveva nascosto a nessuno le proprie idee. Anche in
    questo caso sarò ugualmente morto ed ugualmente impossibilitato al ritorno in
    vita. Forse qualcuno dovrà porsi domande, studiare il caso, analizzare la
    carriera dell’illustre cattedratico. Non si trattava di uno squilibrato, e le
    sue teorie su presunte differenze biologiche circolavano liberamente. C’è forse
    il rischio che qualche tribunale possa alla fine ritenermi colpevole della mia
    morte, dovuta alle ipotetiche peculiarità attribuite al mio DNA? Fortunatamente,
    nell’Europa delle democrazie più mature ed evolute, oggi la memoria e lo studio
    dei fatti della Shoah sono affidati alle scuole. Tuttavia, è nell’arena
    politica e mediatica che ci troviamo invece ad analizzare gli esiti di un
    investimento sulla memoria che talvolta non produce i risultati che si
    auspicavano. Le minoranze inermi costituiscono tuttora, per molti governi, un
    problema da risolvere a ogni costo. Provate a chiederlo alla gente del Darfur,
    agli Igbo della Nigeria (e chi se ne ricorda più, era il 1966), ai due milioni
    della Kampuchia Democratica (la
    Cambogia),
    ai Tutsi del Ruanda, agli
    Indios dell’Amazzonia e agli aborigeni australiani, agli armeni. E anche alle
    vittime delle “pulizie etniche” effettuate proprio di fronte agli ombrelloni
    dell’Adriatico italiano. Il demone evocato in Germania nel 1933 è rimasto fra
    noi, quasi esistesse un doppio malefico del genio nella bottiglia di Aladino.
    C’è il timore appena sussurrato ma onnipresente, che quel demone mai placato
    possa di nuovo colpire proprio gli ebrei, i quali l’hanno conosciuto e
    sperimentato nella sua incarnazione più feroce. Certe equivoche simpatie per
    regimi duri, preoccupano, inquietano e sconvolgono le diaspore ebraiche. Se la
    memoria è un dovere, la ritualità della ricorrenza rischia di trasformarsi in
    lavacro per le colpe del passato e le omissioni del presente. Gli striscioni
    razzisti delle curve non sono scherzo o gioco di irresponsabili. Dilagano in
    rete i testi più infami che istigarono al massacro. Occorre studiare,
    documentarsi, comprendere. Occorrono insegnanti motivati e preparati. Il Paese
    Italia diventa ogni giorno più complesso e difficile. E’ stanco, viziato,
    svogliato. I buoni, i puri, gli altruisti stanno in trincea. Troppo spesso
    nella pratica quotidiana verifichiamo che l’insistenza istituzionalizzata,
    rituale, sugli orrori della storia e della cronaca non riesce a prevenire
    derive e sbandamenti. Può perfino indurre a maldestre imitazioni del nazismo,
    per la ricerca del momento di notorietà che la rete non nega più a nessuno. Revisionismo
    e antigiudaismo espliciti costituiscono la punta di un micidiale iceberg.  Però si confida nel potere di una magica
    equazione: se succede a noi, prima o poi verrà anche il vostro turno. Una
    equazione che è possibile dimostrare soltanto a posteriori. Volessimo consolarci nella modernità, si farebbe bene
    a tener presente che le vigenti legislazioni europee in materia di emigrazione
    per motivi politici, religiosi e razziali,
    difficilmente permetterebbero la fuga e
    l’accoglienza dei duecentomila ebrei che riuscirono ad espatriare dopo
    aver lasciato in Germania e in Austria tutti i propri beni. Poi non tutti si salvarono, come ci insegna purtroppo la
    storia di Anna Frank. La tecnologia dell’informazione implica adesso una
    pericolosa tracciabilità, ci applica un codice digitalizzato cui risulta
    impossibile sottrarsi. Vi troveranno subito e dovunque. Telefoni cellulari, carte
    di credito, automobili lasciano scie elettroniche,
    dovunque. Indelebili. Nessuno sarebbe in grado di rubare un’identità nuova e
    pulita per fabbricarsene un’altra, per sfuggire a nuove SS che dovessero
    mettersi in caccia. 

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