Nel calendario politico di Israele fra Pesach, la festa della liberazione dalla schiavitù d’Egitto e da tutte le schiavitù di tutte le generazioni e Shavuoth (le “settimane” da cui deriva la pentecoste cristiana), in cui si festeggia il dono della Torah e dunque l’identità etica e la missione spirituale del popolo ebraico, ricorrono tre anniversari solenni. In primo luogo il giorno della Shoà e dell’eroismo, in cui si sono appena ricordate non solo le vittime del genocidio nazista, ma anche coloro che resistettero alla barbarie – e furono tanti, nel ghetto di Varsavia, nelle rivolte dei campi, nelle formazioni della Resistenza in molti paesi, negli eserciti alleati come la Brigata ebraica. Poi vengono due giorni consecutivi, quello del ricordo dei caduti nelle guerre in difesa dello Stato di Israele e delle vittime del terrorismo, un elenco che ancora purtroppo si allunga anno dopo anno; e la festa dell’indipendenza che ricorda l’anniversario della proclamazione dello Stato di Israele. E’ un percorso di memoria, non deterministico ma ricco di senso. La Shoà va pensata anche alla luce di tutte le altre persecuzioni subite dal piccolo ma indomabile popolo ebraico per tutti i secoli, a partire dalla prigionia egiziana. Essa non fu la causa della ricostituzione di uno stato ebraico, che era iniziata prima, ma certamente Israele è una garanzia contro l’antisemitismo che ritorna. Questo stato non è stato e non è, come dovrebbe invece essere, la normale espressione dell’autodeterminazione di un popolo nella sua antica patria, accettata dagli altri popoli in nome della comune libertà, ma è stato contrastato con una ferocia unica nella storia ed ha retto solo grazie al sacrificio costante di cittadini e militari. Infine Israele è sì uno stato democratico come tutti, con diritti e doveri, luci e ombre, ma è anche l’espressione di un’eredità spirituale che risale fino al Sinai.