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    Israele e il dilemma dei confini strategici

     In un paese democratico, soprattutto se sottoposto all’attacco concentrico di nemici implacabili com’è Israele, le campagne elettorali sono momenti di verità. I dettagli delle scelte militari non possono essere sottoposti agli elettori, ma le impostazioni di fondo sì. Senza entrare nel dibattito politico, vale la pena di sottolineare la scelta fondamentale. Nel discorso di presentazione del suo nuovo partito, il generale Gantz ha ribadito un tema classico del “campo della pace”, quello della “separazione dei due popoli”, richiamando il precedente dello sgombero dei villaggi ebraici nella striscia di Gaza voluto da Sharon. L’ideale della separazione è certamente lodevolissimo – se fosse realizzabile, naturalmente. Ma basta percorrere la strada 60 che segue l’antico itinerario dei patriarchi sul crinale della colline di Giudea e Samaria per farsi venire il dubbio che la separazione sia impossibile, a meno di fare pulizia etnica di una delle due popolazioni con terribili costi umani e anche militari. E mentre oggi è chiaro a tutti – salvo alcuni irriducibili – l’errore fatto a Oslo di importare in Giudea e Samaria i capi terroristi, permettendo loro di rivendicare uno stato, forse alcuni si illudono ancora sulla scelta fatta da Sharon. Ma è chiaro che l’abbandono agli arabi di tutta la Striscia, senza neanche mantenere il controllo del confine con l’Egitto, ha permesso al terrorismo di svilupparsi immensamente, con la conseguenza di un impegno maggiore dell’esercito e costi più grandi in vite umane. Ripetere lo stesso errore in Giudea e Samaria potrebbe essere fatale per Israele. Non è ben chiaro se Gantz coltivi proprio questo progetto, data l’ambiguità delle sue comunicazioni. Ma è chiaro che la scelta fra la linea di Sharon (e ancor più di Peres) e quella di Netanyahu è il vero tema strategico su cui saranno chiamati a pronunciarsi gli elettori israeliani.

     

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