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    EUROPA

    L’ultima sinagoga della Georgia sopravvive grazie a un ragazzo di 23 anni

    Nel sud-ovest della Georgia, a pochi chilometri dal confine con la Turchia, si trova una delle sinagoghe più antiche d’Europa. È l’ultima testimonianza tangibile di una comunità ebraica un tempo vivace e numerosa, oggi ridotta a un solo custode: Beniamin Levishvili, 23 anni, gabbai della sinagoga di Akhaltsikhe.
    “Resto perché, se non lo faccio io, chi lo farà?” racconta Beniamin al Times of Israel. Divide il suo tempo tra Israele e la Georgia, ma durante la stagione turistica torna sempre ad Akhaltsikhe, dove guida gruppi di visitatori israeliani e si occupa della sinagoga. La sua dedizione nasce da una lunga tradizione familiare: suo nonno Ioseb fu una figura chiave nella difesa del patrimonio culturale e religioso ebraico durante l’epoca stalinista, quando le sinagoghe venivano confiscate e riconvertite. Negli anni d’oro, la comunità ebraica locale contava quasi tremila membri e due sinagoghe. Ma con le ondate migratorie verso Israele negli anni Settanta e Novanta, alimentate dal desiderio di sfuggire alla repressione sovietica, la comunità si è progressivamente svuotata. Una delle due sinagoghe è oggi in rovina. L’altra, quella custodita da Beniamin, è ancora attiva.
    La data di costruzione della sinagoga è ancora dibattuta. Un’incisione sulla facciata riporta l’anno 1863, ma secondo la storica locale Tsira Meskhishvili potrebbe essere stata eretta già nel XVIII secolo, forse intorno al 1740. Le sue ricerche, basate su diari di viaggio e sull’analisi dello sviluppo economico della comunità ebraica sotto l’Impero Ottomano, suggeriscono che gli ebrei locali non pregassero in rifugi di fortuna, bensì in strutture stabili e ben progettate. Una tesi opposta è sostenuta dall’architetto israeliano Daniel Moshe, che visitò la sinagoga nel 1995 e attribuisce la sua costruzione alla seconda metà dell’Ottocento, dopo l’annessione russa della Georgia, forse su iniziativa di ebrei ashkenaziti. A rafforzare questa ipotesi sono le caratteristiche architettoniche dell’edificio.
    Nonostante le incertezze cronologiche, l’edificio è diventato meta di pellegrinaggio per molti visitatori. All’interno si trovano rotoli della Torah provenienti dall’Unione Sovietica e persino una, del XVI secolo, proveniente dall’Iraq, custodita dietro l’Aron HaKodesh, l’Arca Santa. “Quando la mostro ai visitatori, spesso si commuovono fino alle lacrime” confida Levishvili.
    Fino agli anni ’70, la Georgia ospitava una delle comunità ebraiche più antiche del mondo, con circa 60.000 membri. Oggi ne restano meno di 1.500. La loro storia è unica: molti provenivano da Turchia, Iran e Marocco, seguendo tradizioni sefardite e sviluppando una lingua propria, il giudeo-georgiano, un dialetto aramaico ormai in via d’estinzione.
    David Boterashvili, 64 anni, cresciuto a Rabati, dove si trova la sinagoga, ricorda: “Non ci consideravamo solo ebrei georgiani, ma ebrei di Rabati. C’era una differenza, interna ed esterna”. La rivoluzione bolscevica portò deportazioni e un’economia collettivizzata. Un documento del 1931 conservato alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme celebra il successo delle fattorie collettive ebraiche ad Akhaltsikhe, testimoniando un passato di resilienza e ingegno. La georgianizzazione degli ebrei — riflessa nei cognomi, nella lingua e nella partecipazione alla vita nazionale — ha rafforzato il legame con il paese. Eppure, oggi, la diaspora ha lasciato un vuoto profondo. In Israele, piccoli gruppi mantengono viva la tradizione giudeo-georgiana ad Ashdod e Haifa, ma le nuove generazioni hanno ormai perso quasi ogni legame con le radici georgiane. “Perdita. Esiste una sola parola per descrivere tutto questo” afferma la storica Thea Gomelauri.

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