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    Je accuse… Zemmour

    “Je accuse”, era il 13 gennaio 1898 quando Èmile Zola, un semplice scrittore, decide di mettere sotto accusa lo stato francese per il caso Dreyfus. Zola non era ebreo, ma Alfred Dreyfus, accusato falsamente di spionaggio con il nemico, sì. Zola ebbe il coraggio di ribaltare i capi di imputazione contro Dreyfus accusando di fatto la Francia intera di razzismo. Dreyfus fu poi scagionato, ma dopo più di 120 anni qualcuno ipotizza una possibile colpevolezza o comunque l’impossibilità di sapere mai la verità. Teoria alquanto bizzarra visto la possibilità, per un arco di tempo così breve per gli storici, di recuperare tutti i documenti necessari. La singolarità è che a ventilare i dubbi è un altro ebreo di origine algerina, Eric Zemmour, giornalista, assurto recentemente alle cronache internazionali come candidato all’Eliseo del sovranismo di destra. Zemmour non si ferma a Dreyfus ma fomenta dubbi sul raccapricciante rastrellamento seguito dalla deportazione del Velodromo d’Inverno, il 16 e il 17 luglio 1942 quando la polizia francese arrestò più di 13mila ebrei, tra cui molti bambini, che finirono nei campi di sterminio. E tenta perfino di riabilitare la Francia di Vichy. Zemmour intanto rischia un anno e 45mila euro per aver definito i migranti ladri, assassini e stupratori ed è sotto processo per istigazione all’odio e offese razziali. Arretra anche nei sondaggi. 

    Ci pensa Bernard-Henri Lévy a filosofo e giornalista a condannare Zemmour dal punto di vista ebraico su “Repubblica”. “La sua hybris nazionalista e razzista, la sua crudeltà, il rinunciare alla generosità ebraica, alla fragilità ebraica, all’umanità e all’essere erranti quasi per fisiologia; quella sua ignoranza, non delle schede di lettura di cui si è imbevuto, ma del vero sapere, scritto con il sangue nella memoria delle nostre famiglie, e che implica non perdere l’equilibrio quando la Storia curva bruscamente, e mantenerci saldi quando l’acido della persecuzione ci schizza addosso, ebbene, tutto ciò reca offesa alla parola «ebreo», di cui ogni ebreo è custode, a meno che non ne prenda pubblicamente le distanze”.

    Ma è la condanna storica che potrebbe sorprendere perché verrebbe dal passato, da un altro ebreo, anch’egli giornalista, di certo più famoso e importante di Zemmour e anche di Lévy: Theodore Herzl. Perché proprio lui era a Parigi durante l’affare Dreyfuss che seguì come corrispondente della Neue Freie Presse. Da lì partirono tutte le sue considerazioni su quanto fosse radicato l’antisemitismo in Europa, da lì Herzl concepì Der Judenstaat, Lo stato ebraico, dove proponeva uno stato che avrebbe sottratto gli ebrei dalle persecuzioni antisemite. La storia ha dimostrato che Herzl aveva ragione. Anche per Zemmour e per tutti gli ebrei cacciati dai paesi arabi nel 1967 che hanno trovato patria in Europa, ma che sanno di poter contare su Israele se le cose dovessero mettersi male. Le lezioni della storia non mancano. Molti ebrei si convertirono nei secoli al cattolicesimo, dalla Spagna di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona all’epoca dell’emancipazione e al fascismo, ma per gli antisemiti erano sempre ebrei. L’antisemitismo non muore mai anche quando, basta guardare la Polonia, i sovranisti manifestano al grido “morte agli ebrei” dove gli ebrei non ci sono più. E come verrebbe considerato Zemmour da Jean Marie Le Pen, padre di Marine Le Pen? La risposta è talmente chiara da essere anche inutile. Rincorrere i nazionalisti, diventare sovranisti a propria volta sembra il gioco di una maschera grottesca. Noi preferiamo la lezione di Herzl.

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