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    Conferenza dell’EJA: “L’antisemitismo si combatte rafforzando l’identità ebraica dei nostri giovani” – Intervista a Riccardo Pacifici

    Riccardo Pacifici, a lungo Presidente della Comunità Ebraica di Roma, ha
    partecipato alla Conferenza Annuale della EJA (European Jewish Association) che
    si è tenuta a Budapest questa settimana. L’antisemitismo, le limitazioni
    alla milà e shehità sono alcuni dei temi che
    sono stati affrontati dai leader e rappresentanti del mondo ebraico europeo che
    hanno votato una risoluzione finale contenente alcune misure che verranno
    proposte ai governi europei per favorire il senso di sicurezza percepito da parte
    delle Comunità ebraiche. L’Italia, in base alla ricerca presentata dalla EJA è
    tra i paesi considerati più sicuri dai membri delle comunità ebraiche.

     

    L’hanno stupita i risultati della ricerca EJA?

    Mi hanno fatto riflettere. Ieri il primo ministro ungherese ha messo in
    evidenza le battaglie a difesa e tutela delle comunità ebraiche, e ha rimarcato
    il tema di cui era orgoglioso: di aver restaurato e aiutato le comunità ad
    aprire nuove sinagoghe, ne ha menzionate 22, nonché nuovi ristoranti kosher,
    scuole ebraiche. Sembrava musica per le nostre orecchie. Peccato che questo sia
    un paese in cui comunque i gruppi neonazisti sono troppo tollerati e in cui
    probabilmente si ‘nicchia’ nei loro confronti. È giusto probabilmente parlare
    nelle sedi opportune di questi temi. Mi ha sorpreso poi leggere che nelle
    risoluzioni antisraeliane per 12 volte, tutte e 12 le volte, l’Ungheria ha
    votato a favore di Israele, mentre l’Italia (che ha ha un atteggiamento di forte
    rispetto dei diritti civili e di forte emarginazione dei gruppi estremisti
    neonazisti, per cui non vi è spazio per loro) è un Paese, che, nelle parole dei
    governi e anche dello stesso attuale Ministro degli Esteri, ha sempre votato o
    contro Israele, o si è astenuta. Quindi non ho ancora visto un voto a favore di
    Israele da parte dell’Italia. Su questo c’è ancora da capire dove sia il corto
    circuito.

     

    Sulla base della sua esperienza, qual è la situazione in Italia rispetto ad
    altri paesi su temi che sono oggetto di preoccupazione del mondo ebraico
    europeo come la shehità e la milà ?

    C’era stato un tentativo una quindicina di anni fa, promosso per motivi
    completamente diversi e opposti – dai Verdi e dalla Lega. I Verdi in un’ottica
    animalista, mentre la Lega in funzione più “anti-islamica”, che antisemita.
    Questi propositi vennero poi smorzati almeno a livello di leadership per via
    della dissoluzione dei Verdi, e perché la Lega intraprese un percorso diverso.
    Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, più in veste di medico che di
    rabbino è stato anche in grado di spiegare da un punto di vista tecnico agli
    interlocutori quale fosse l’errore sul tema – ad esempio quello riguardante la
    presunta sofferenza degli animali. Devo dire che non mi sembra un argomento in
    agenda, anche se l’influenza che potrebbe avere una decisione a livello europeo
    potrebbe essere molto rischiosa poiché, come per altre leggi, l’Italia ha poi
    l’obbligo di darne attuazione.

     

    In che modo le comunità ebraiche in Europa possono far sentire la propria
    voce e difendere le proprie tradizioni?

    Di certo non lo possono fare andando a commemorare il 27 gennaio e
    continuando a presentarci solo come il popolo delle vittime della Shoah.
    Attenzione! Lo dico da nipote, ho avuto i miei nonni assassinati a Birkenau e
    sono nel consiglio dei soci fondatori del Museo della Shoah. È molto facile
    andare dalle autorità regionali o nazionali a chiedere supporto su attività
    della memoria, musei o mausolei. È molto facile fondi a tali scopi.
    Paradossalmente, non vi è invece una grande consapevolezza sul fatto che il
    modo migliore per combattere l’antisemitismo sia di far conoscere gli ebrei nel
    loro vissuto quotidiano. Il che significa che non si è ebrei in quanto figli o
    nipoti di vittime della Shoah, o se si è subita una azione antisemita. Si è
    ebrei nel momento in cui si ha la capacità, l’orgoglio di essere ebrei, di
    presentarsi con la kippà, di non avere paura a parlare dei problemi
    correlati al rispetto dello Shabbat. Credo, inoltre, che
    chiedere fondi per investirli sull’educazione ebraica sia una delle migliori
    soluzioni per affrontare il futuro.

     

    Quali pensa che siano gli ostacoli maggiori che i leader delle comunità
    ebraiche europee dovranno affrontare nei prossimi anni?

    La loro incapacità di comunicare all’interno, le gelosie e soprattutto il
    protagonismo dei singoli. Questo avviene anche a livello internazionale. Voglio
    spendere due parole su EJA. Se la paragono ad altri eventi a cui mi è capitato
    di partecipare nella mia lunga esperienza, questa non è una organizzazione in
    cui ci si vede una volta l’anno a scopi di promuovere la propria visibilità, o
    per parlarsi addosso. È una struttura nella quale nel quotidiano di tutto
    l’anno si fanno molte iniziative, specialmente per quanto riguarda le
    interconnessioni attraverso le diverse comunità, e soprattutto tra i giovani. È
    infatti fondamentale aggregare i giovani, investire sul futuro, e promuovere
    l’interconnessione tra comunità all’interno dell’Europa, e tra l’Europa e
    Israele.

     

    Durante la Conferenza lei è stato presentato come un combattente per
    l’ebraismo. Quali sono le sue battaglie in questo momento?

    Di battaglie sulla strada ne abbiamo fatte tante. Io per dodici anni ho
    vissuto sotto scorta. Non sono uno che è passato alla storia almeno nel mondo
    ebraico per avere un atteggiamento remissivo. L’altro giorno, un giornalista di
    Repubblica che mi ha intervistato, si ricordava quando ho fisicamente
    affrontato un nazista dentro un’aula di tribunale, con la meraviglia del
    giudice che ha dovuto interrompere l’udienza. Credo che oggi all’interno del
    mondo ebraico la vera sfida non sia quella di avere risorse per nuovi musei –
    credo che sia più utile costruire un polo di ricerca, andare a cercare storie –
    ce ne sono difatti ancora di significative – sia di chi ci ha venduto, ma anche
    di chi ci ha salvato. Non ci servono grandi monumenti, serve investire di più
    sull’aspetto educativo. Penso che la sfida attuale più importante sia quella di
    aiutare i giovani delle piccole comunità a frequentare scuole ebraiche, e ad avere
    relazioni dirette con i loro coetanei delle comunità più grandi.

     

    In Italia si parla molto di Shoah, ma purtroppo i testimoni diretti ci
    stanno lasciando. Bisogna pensare ad un nuovo modo di parlarne.  Cosa
    pensa della proposta della Segre di coinvolgere Chiara Ferragni? Al di là
    dell’impatto mediatico immediato, pensa possa funzionare coinvolgere personaggi
    famosi?

    Sono stato molto critico – lo ho anche scritto in un post. Liliana Segre ha
    fatto il suo dovere, non può rifiutare di accogliere nessuno. Sicuramente il
    tema dei social e degli influencer è qualcosa che dobbiamo affrontare – è una
    nuova sfera nella quale destreggiarsi nella comunicazione. Un influencer può
    senza dubbio portare dei risultati positivi importanti nell’immediato, ma
    bisogna anche discernere tra coloro che conducono operazioni (a mio avviso)
    genuine, rispetto a quelli che magari lo fanno per questioni di marketing. Per
    quanto riguarda la coppia Ferragni io personalmente non dimentico le odiose
    parole di Fedez durante le ultime situazioni di tensione in Israele diversi
    mesi fa e quindi non ci tengo a farmi strumentalizzare da personaggi del
    genere. Andiamo piuttosto a cercare degli altri influencer che possano
    promuovere messaggi genuini.

     

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