
Gli autori del Manifesto
Si è discusso molto nell’ultima settimana del cosiddetto “Manifesto di Ventotene”, che in realtà aveva come titolo originale “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto”. Senza entrare in queste polemiche, vale certamente la pena di chiedersi se in esso vi sia una radice ebraica. La domanda è giustificata dall’identità degli autori. Il più noto dei tre antifascisti confinati nell’isola di Ventotene che lo scrissero nel 1941 (e due anni dopo furono fra i fondatori del Movimento Federalista Europeo) era Altiero Spinelli, anche perché fece una notevole carriera politica: fu deputato fra gli “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste del PCI, poi deputato europeo, sempre col PCI, e anche membro della Commissione Europea. Ci sono testimonianze di un suo violento atteggiamento anti-israeliano, proseguito peraltro dalla figlia Barbara, anche lei politica di estrema sinistra. Il secondo firmatario del manifesto è Ernesto Rossi, giornalista, economista, polemista anticlericale e anche lui esponente politico nelle liste prima del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale.
Eugenio Colorni, ebreo medaglia d’Oro della Resistenza
Quel che ci interessa, perché era ebreo, è invece Eugenio Colorni, forse il meno noto dei tre, se non altro perché non sopravvisse alla guerra, essendo stato ucciso dai tedeschi durante un’azione partigiana in Via Livorno a Roma poco prima della liberazione della città, il 30 maggio 1944. Gli fu assegnata per la sua attività partigiana la medaglia d’oro per il valore militare alla memoria. Colorni non poté dunque partecipare all’attività politica dell’Italia libera e non sappiamo se e come l’avrebbe fatto; la sua attività fu innanzitutto un gesto morale di resistenza al fascismo e poi all’occupazione nazista, ma la sua vocazione principale era diretta al pensiero filosofico; il suo precoce talento in questo campo era stato riconosciuto dai grandi filosofi italiani del tempo, Croce e Gentile. Vale la pena di usare questa occasione per ricordarne la bellissima figura. Nato a Milano nel 1909, secondogenito di Alessandro, industriale ebreo mantovano, e della pisana Clara Pontecorvo, fu fortemente influenzato in gioventù dal cugino Enzo Sereni, fervente sionista che immigrò in Israele nel 1927 e morì poi a Dachau ucciso dai nazisti dopo essersi paracadutato nel 1944 nell’Italia occupata. Colorni probabilmente pensò anche lui ad andare in Israele, sappiamo che da liceale si dedicò allo studio dell’ebraico, ma poi si iscrisse alla facoltà di filosofia a Milano, si laureò nel 1930 con Martinetti con una tesi su Leibniz. Frequentava nel frattempo circoli antifascisti, scrisse i primi articoli, poi un libro su Croce; fece un periodo da lettore di italiano all’Università di Marburgo dove ebbe occasione di vedere i nazisti in azione; tornò in Italia quando essi presero il potere. Nel 1934 ottenne una cattedra in un istituto magistrale a Trieste, dove rimase fino all’arresto del settembre 1938. A Trieste frequentò Eugenio Curiel, altro ebreo medaglia d’oro della Resistenza, Umberto Saba, Bruno Pincherle. Assolto in tribunale per insufficienza di prove dall’accusa di attività sovversiva, fu comunque messo al confino nel 1939 a Ventotene e poi spostato nel 1942 a Melfi, dove incontrò Ludovico Geymonat e insieme a lui abbandonò le posizioni idealiste per avvicinarsi alla filosofia della scienza. Nel frattempo era passato dagli ambienti del Partito d’Azione alla militanza nel Partito Socialista. Evaso dal confino, si diede tutto all’attività della Resistenza. Pubblicò allora per la prima volta il Manifesto di Ventotene, diresse l’edizione clandestina dell’”Avanti” e partecipò alla lotta armata antinazista, fino alla sua tragica fine.
Le critiche
Torniamo al “Manifesto”. Nonostante le polemiche, è evidente a chi lo legga che le critiche di Meloni al testo sono difficilmente confutabili. L’idea di Europa che ne esce è “socialista”, con uno spazio solo residuale per proprietà privata e iniziativa individuale; la federazione europea dev’essere costituita da un “partito d’avanguardia” che agisca di forza senza badare all’opinione dei cittadini, le varie nazioni d’Europa possono avere delle specificità, ma devono obbedire alle scelte del centro europeo, anche perché costrette da un esercito la cui funzione principale è proprio questa. C’è una profonda sfiducia nel popolo e quindi nella democrazia, un atteggiamento elitario e dirigista, pochissima disponibilità per il pluralismo e il dissenso. Insomma, anche se nessuno dei tre firmatari era membro del partito comunista (Spinelli lo era stato per molti anni fino al 1937, quando fu espulso per “trotzkismo”), il modello è quello dell’Urss e del colpo di stato con cui Lenin prese il potere nella “rivoluzione d’ottobre”. Non ha senso giustificare queste idee autoritarie per il fatto che i tre erano confinati; certamente tutti conoscevano anche il pensiero liberale e democratico, avevano letto Croce, Calogero, Gobetti e tanti altri autori. Il punto è che scelsero una posizione di concorrenza all’Urss (che in quel momento era sostanzialmente alleata al nazismo, bisogna ricordare) ma restando sullo stesso terreno “rivoluzionario” e in sostanza autoritario. Un atteggiamento forse comprensibile allora. Che questo sia un modello per l’Europa di oggi invece preoccupa molto.
C’è stata un’influenza ebraica sul “Manifesto”?
È chiaro che questo quadro mentale è profondamente lontano non solo da quello realizzato dal socialismo sionista in Israele, il solo esperimento veramente democratico di collettivismo democratico; ma anche da tutta la tradizione ebraica che almeno dalla diaspora è sempre stata fondata sulla dialettica delle idee e su organizzazioni comunitarie partecipative. Va aggiunto che la condanna degli stati nazionali, che è il fondamento del “Manifesto”, dell’attività successiva soprattutto di Spinelli e anche oggi di molti atteggiamenti europeisti, è il contrario della speranza sionista. Sul rapporto fra ebraismo ed Europa ci sarebbe molto da dire; è chiaro che nei venti secoli e passa di presenza ebraica sul continente i tempi di persecuzione e discriminazione sono stati lunghissimi e terribili; comunque che anche quando non vi era violenza, per esempio nell’Europa liberale fra rivoluzione francese e nazifascismo, la spinta all’assimilazione e alla riduzione dell’ebraismo da cultura di un popolo a religione privata è stata assolutamente dominante. Ed è chiaro anche che da quando c’è Israele l’Europa politica ha avuto in genere più simpatia per i suoi nemici che per lo Stato ebraico. Sul manifesto di Ventotene e sull’Europa insomma si può discutere; ma difficilmente si può attribuire loro un carattere ebraico.