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    Tutti i colori dell’Italia Ebraica. “Dal sacro al profano. L’emancipazione e il nuovo collezionismo”

    Pubblichiamo di seguito alcuni estratti del contributo della Professoressa e curatrice della mostra Dora Liscia Benporad tratti dal catalogo “TUTTI I COLORI DELL’ITALIA EBRAICA. TESSUTI PREZIOSI DAL TEMPIO DI GERUSALEMME A AL PRET-A-PORTER” allestita con la Galleria degli Uffizi nel giugno 2019.

    Con l’emancipazione dai ghetti, deliberata dal parlamento del nuovo regno d’Italia nel 1861, gli ebrei italiani videro la loro condizione sociale mutare sostanzialmente, anche se in alcuni stati già da qualche decennio si era cominciato a respirare un’aria nuova, in parte dovuta agli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza portati dai rivoluzionari francesi, in parte ai movimenti nazionali di cui il Risorgimento fu uno dei più significativi esempi. Roma, com’è noto, arrivò assai più tardi con l’annessione nel 1870 e la sua proclamazione a capitale, ma già nei secoli più bui della detenzione nel ghetto si manifestò un interesse straordinario per quello che ora definiremmo antiquariato. Molti nomi di ebrei compaiono tra i fornitori di arredi e tessuti non solo per le maggiori famiglie romane, come i Pamphilj e i Barberini, ma anche per i ponte!ci1 . Leone Iair ebreo aveva venduto ad Alessandro VII Chigi nel 1657 alcuni paramenti di damasco, l’anno successivo arazzi, il cui commercio sembra essere stato assai florido, nel 1661 tappeti . Giuseppe Abendana, un mediatore di arazzi tra Firenze e Venezia, rifornì le dimore della famiglia Medici3 . Tra coloro che ebbero un ruolo in questo commercio ci furono certamente gli Ambron, peraltro munifici benefattori della Scola Catalana, che alla fine del XVIII secolo adattavano mobili e altre suppellettili alle nobili casate romane . È noto il coinvolgimento degli ebrei con i tessuti anche a seguito dei commerci con i paesi del bacino del Mediterraneo, essendo divenuti un tramite con il mondo musulmano; tuttavia, tra la gente di «bassa sfera», come dice la prammatica del 1703, emanata dal granduca di Toscana Cosimo III per tenere a freno le usanze eccessive invalse a Livorno, era abitudine acquistare abiti usati, ma di un certo pregio, sebbene non più di moda. Dal testo della prammatica si capisce che si aveva piena consapevolezza del valore di questi manufatti, tanto che nel documento di risposta da parte dei maggiorenti della città al granduca vi fu l’osservazione che sia i gioielli sia gli abiti erano considerati un capitale a cui attingere nel momento del bisogno e da impegnare parimenti presso il Monte di pietà5 . La novità stava nel fatto che le norme colpivano non solo la popolazione locale, ma anche le nazioni forestiere, tra cui gli armeni e gli ebrei, i cui abiti evidentemente apparivano poco convenzionali; gli ebrei livornesi, non essendo mai vissuti in un ghetto, erano disabituati alla durezza delle leggi che disciplinavano la vita dei correligionari nelle altre città italiane. Il celebre dipinto di Solomon Alexander Hart, che immortala la sinagoga di Livorno durante la festa di Simchàt Toràh, è un valido documento per testimoniare lo sfarzo che caratterizzava l’abbigliamento della popolazione ebraica. Anche le raffigurazioni del porto lo vedono animato da uomini con abbigliamento orientale. Livorno fu un caso anomalo, ma là dove il lavoro di stracciaioli e cenciaioli era quello che offriva tra i maggiori introiti alla popolazione ebraica più misera, come a Roma o nella stessa Firenze, si cominciò a sviluppare un’attenzione significativa verso i tessuti di seconda mano, talvolta sfarzosi sia per i materiali, sia per la tecnica, sia per i disegni. Forse a questo mestiere degradante si deve, già all’inizio dell’Ottocento, la nascita di un collezionismo relativamente poco usuale tra i gentili6 . Uno degli esempi più significativi è costituito dalla collezione di tessuti appartenuta a Giulio Franchetti (1840-1911), membro di una famiglia originaria di Tunisi trasferitasi a Livorno, i cui numerosi rami s’impiantarono poi in altre regioni, come il Piemonte e il Veneto7 . Si tratta di una raccolta prestigiosa che copre un arco cronologico amplissimo, poiché si estende dai tessuti copti del IV-VII secolo fino al Settecento, con una particolare attenzione al periodo rinascimentale. Conta anche molti pezzi lucchesi del Trecento, periodo d’oro della manifattura. In tutti i casi, vediamo che i vari frammenti provenivano in origine dai medesimi paramenti o dagli stessi abiti divisi tra altre famose collezioni, segno di un fruttuoso scambio con amatori ed esperti italiani e stranieri in questo particolare campo. Numerosi grandi musei, tra cui il Victoria and Albert Museum di Londra, erano nati per mostrare a disegnatori ed esecutori di arti decorative e industriale modelli a cui adeguarsi per innalzare il livello della produzione inglese, visto il sensibile abbassamento della qualità che era emerso in maniera eclatante, soprattutto nei confronti con altre realtà europee come quella francese e tedesca, in occasione della Great Exhibition of the Works of Industry of All Nations del 1851, allestita nel Crystal Palace. La povertà della produzione industriale inglese era stata già in precedenza sottolineata da Augustus Welby Northmore Pugin, uno dei massimi propugnatori del Gothic Revival. Ovviamente la situazione italiana era completamente diversa, poiché non esisteva un’economia industriale, salvo nel nord, dove il dominio austroungarico aveva necessariamente imposto un’accelerazione verso la meccanizzazione dei metodi produttivi. Tuttavia alcuni musei nacquero con il preciso intento di raccogliere esempi significativi che servissero da modello per rinvigorire l’artigianato. Firenze fu spinta verso nuove strade, che portavano a migliori risultati, sia dalla dominazione francese, sia dagli ideali illuministi a cui si ispirava la famiglia dei granduchi lorenesi. Si tentava di convincere gli artigiani ad accettare una industrializzazione delle manifatture nell’ottica di liberare i lavoratori dal «giogo della fatica corporea» . La nascita di istituzioni, come il Conservatorio di arti e mestieri voluto dai francesi, si mosse proprio in questa direzione, al fine di conciliare nel territorio toscano l’abilità tecnica e artigianale italiana con una produzione industriale, sebbene si temesse così di cancellare l’eredità del Rinascimento.

    A cura di Michelle Zarfati

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