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    Cultura

    Riflettori su “Liliana”, il nuovo film di Ruggero Gabbai alla Festa del Cinema di Roma

    Liliana è un nome che racconta molto della Shoah italiana. “Liliana” è anche il titolo del nuovo documentario di Ruggero Gabbai presentato alla Festa del Cinema di Roma, che ricostruisce la storia e la vita della senatrice a vita. Un film che si basa su accostamenti, rimandi e contrasti tra il racconto storico e il ritratto contemporaneo di una delle donne più importanti del panorama italiano. Il docufilm mette in luce gli aspetti meno conosciuti della senatrice, portando in superficie una figura culturale e politica moderna e appassionata nel trasmettere alle giovani generazioni un messaggio di libertà e uguaglianza. Shalom ha intervistato il regista Ruggero Gabbai.

    Liliana Segre, la sopravvissuta alla Shoah, la testimone, la Senatrice a vita. Cosa ci racconta il film che già non sappiamo sul suo conto?
    Liliana è diventata nel tempo, prima come testimone della Shoah e poi come senatrice, una donna pubblica, una testimone d’eccellenza in grado di comunicare con forza e grande lucidità. Tuttavia, da quando Mattarella l’ha nominata senatrice a vita è diventata anche un simbolo. Questo film intende, in un certo senso, smontare l’idea “dell’icona” ma vuole dar voce alla sostanza della vita di Liliana. Oggi l’Italia ha bisogno di pensare e di riflettere su tutto ciò che Liliana dice, e dare un senso più profondo al suo volto. Una storia unica che si rivela nel film scena dopo scena.

    Nel film Liliana Segre parla nella sinagoga di Pesaro. Cosa racconta dell’ebraismo della senatrice?
    Liliana è un personaggio molto ascoltato e si rivolge a tutti gli italiani. È una donna molto consapevole della propria identità: non credo sia un caso che lei abbia voluto delle scene all’inizio del film sulla tomba di sua madre, che perse quando lei aveva pochi mesi; la tomba si trova nella sezione ebraica del cimitero Monumentale di Milano. Verso la fine del film, infatti, lei stessa dice quanto oggi il suo essere ebrea sia fondamentale per lei.

    Come si colloca questo film nel suo lavoro cinematografico sulla memoria?
    Si colloca nel filone delle testimonianze. Tutti i testimoni, da Nedo Fiano a Settimia Spizzichino e molti altri, sono testimoni dell’indicibile, del buco nero del ’900. Molti di loro non hanno parlato per anni, ma, da quando hanno cominciato a farlo per l’archivio della memoria a metà degli anni ’90, si è aperto un vaso di Pandora. Per molto tempo era stato nominato solo Primo Levi come testimone della Shoah italiana; quando primo Levi non c’è più stato, è nata da parte dei testimoni un’urgenza, quasi catartica, di lasciare un segno per le future generazioni. Anche questo film si colloca in questo filone, secondo una visione per cui finché c’è un sopravvissuto in vita è giusto raccogliere la sua storia. Abbiamo bisogno di gente che abbia vissuto l’abisso per capire il mondo di oggi che non ha ancora imparato a fare i conti la pulsione della violenza e della guerra.

    Tra le tante voci c’è quella di sua figlia. È forse la prima volta che l’ascoltiamo. Perché è importante?
    Sicuramente è importante perché Federica non aveva mai parlato prima d’ora, né alle telecamere né con i giornali. Lei ha sempre tenuto un profilo bassissimo rispetto ai due figli che spesso accompagnano la madre in occasioni pubbliche. Io conoscevo la figlia da prima, e lei a sua volta sapeva che stavamo realizzando il film, così un giorno le ho telefonato dicendole quanto poteva essere importante che anche lei fosse presente nel documentario. Lei all’inizio era riluttante, così le ho fatto una proposta: sarei andato da lei con una troupe ridotta e lei mi avrebbe offerto un tè chiacchierando. Se la conversazione le fosse piaciuta l’avremmo tenuta, in caso contrario non l’avremmo utilizzata. In questa testimonianza, che io reputo molto vera e commovente, per la prima volta si è capito quanto Liliana avesse depositato la memoria direttamente a sua figlia. Non è un caso che quando Federica aveva appena 13 anni Liliana avesse già cominciato a scrivere e a leggerle i diari della sua deportazione e della detenzione ad Auschwitz. Come dice Federica nel film, un processo terapeutico per Liliana ma molto duro per lei. Penso che sia uno dei primi film in Italia che accenda i riflettori sul trauma, legato alla Shoah, delle seconde generazioni.

    Tra i numerosi personaggi che descrivono la personalità ce n’è uno che incuriosisce particolarmente, Geppi Cucciari. Puoi anticiparci qualcosa?
    Il film è realizzato con parte dell’archivio della Memoria e con il contributo di Liliana Segre nella sua vita e nelle sue attività di oggi. Momenti e luoghi importanti che descrivono la sua personalità. In più abbiamo aggiunto alcuni personaggi influenti della cultura italiana, che sono stati vicini a Liliana in questi anni di testimonianza. Tra questi Enrico Mentana, Ferruccio De Bortoli, Mario Monti, Fabio Fazio. C’è anche Geppi Cucciari con cui spesso Liliana si vede, per esempio per andare insieme alla Scala. Liliana è una donna aperta, con frequentazioni varie, e questo denota una curiosità innata per la vita con un grande attaccamento per i suoi figli e per i nipoti che la considerano “solo come una nonna”.

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