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    Rabbini di Roma nell’800 – Rav Giacobbe Fasani e l’epidemia del 1836

    Per buona parte dell’Ottocento la Comunità ebraica di Roma fu priva di un rabbino capo diplomato. In parte ciò fu dovuto alle difficoltà economiche in cui la popolazione ebraica romana versava, in parte al fatto che non c’era a Roma una Scuola rabbinica che conferisse titoli superiori. Quei pochi rabbini maggiori che ne ricoprirono la cattedra vennero da lontano, dalla Terra d’Israele o da altre città d’Italia o d’Europa. Nei lunghi intervalli fra un rabbino maggiore e l’altro la Comunità di Roma dovette contare solo sulle proprie forze.

     

    Fra i rabbini romani “facenti funzioni” di rabbino maggiore, rav Giacobbe Fasani (1790-1866) fu certamente quello di maggiore preparazione e spessore culturale. A lui si rivolgevano gli alti funzionari dello Stato Pontificio e i più importanti rabbini di Livorno, di Ancona e di Firenze. Intrattenne una fitta corrispondenza con Samuel David Luzzatto, il principale studioso italiano nella “Scienza del Giudaismo”. Incontrò più volte Sir Moses Montefiore, il grande filantropo ebreo nato a Livorno ma vissuto a Londra, che durante i suoi numerosi viaggi in Europa, nel Mediterraneo e nella Terra d’Israele passò più volte da Roma. 

     

    Giacobbe Giuseppe Fasani (o Fasano, dal nome di una cittadina delle Puglie) era nato nel 1790 da “genitori poverissimi”, come scrisse il 23 febbraio 1866 il suo allievo rav Crescenzo Alatri in un lungo necrologio sull’Educatore Israelita. Studiò nel Talmud Torà di Roma, dedicandosi agli studi rabbinici, e ne divenne presto insegnante lui stesso: “la sua valentia, la sua assiduità, la sua abnegazione, non meno che un tal qual fascino di reverenza e d’amore ch’egli esercitava sui suoi allievi divennero gloriosamente proverbiali”. Fasani fu poi nominato preside della Scuola rabbinica di Roma, effettuando alcune riforme didattiche: negli studi biblici diede prevalenza al campo filologico ed esegetico, e negli studi rabbinici diede meno spazio ai testi cabalistici. Spinto dal desiderio di approfondire la cultura ebraica, il giovane Fasani si recava quotidianamente nella biblioteca pubblica per studiare il Talmud, il cui studio – come è noto – era stato soppresso secoli addietro per ordini dello Stato Pontificio. Fasani si dedicò anche alle “lettere profane”, arrivando alla conoscenza del “francese, spagnolo, latino, greco e qualche elemento di arabo: applicò alla storia, alla filosofia, all’astronomia, all’algebra, alla geometria, alla fisica”. Fasani conseguì il titolo di maskìl e poi quello di chavèr (titolo rabbinico intermedio).

     

    Un manoscritto inedito di rav Fasani, intitolato Sèfer toledòt Ya‘aqòv Yosèf, di più di 400 pagine, è conservato a Gerusalemme presso l’Archivio centrale per la Storia del popolo ebraico. È scritto per la maggior parte in caratteri ebraici corsivi in uso a Roma a quell’epoca. Contiene elegie, appunti di lavoro, copie di lettere a rabbini, testi per lapidi, composizioni liturgiche, descrizione di eventi storici, questioni legali, filosofiche e teologiche, gli orari per le preghiere quotidiane e per altre norme rituali alla latitudine di Roma, considerazioni di natura grammaticale e linguistica, e molto altro ancora.

     

    In un notevole passo delle Toledòt del 1836 è descritto l’arrivo del morbo del colera in Italia. Rav Fasani e gli altri rabbini della Comunità dovettero prendere decisioni di natura religiosa e sanitaria. Un problema insorse riguardo al digiuno del 9 di Av. In altre Comunità il digiuno era stato abolito per non mettere a rischio la vita delle persone. Scrive rav Fasani nelle Toledòt, in ebraico: “Allora siamo stati d’accordo di non osservare il digiuno […] soprattutto per il timore del Regno [pontificio], affinché non ci accusino ingiustamente dicendo che ‘voi avete causato la vostra stessa rovina e avete aumentato la diffusione della malattia anche presso di noi’ e abbiamo stabilito di digiunare [solo] fino al mattino. Dopo la preghiera di Shachrit, usciti dalle sinagoghe, berremo un po’ di caffè, e dopo mezzogiorno, verso le due, mangeremo un po’ di pane e un buon brodo solo per dare sostentamento al corpo, senza assaggiare affatto del vino né mangiare troppo, e a condizione di compensare [il digiuno mancato] con un digiuno alla vigilia del capomese di Kislew”. Rav Fasani poi riporta un’esortazione ai membri della Comunità in cui invita la gente a migliorare la propria condotta morale, appianando liti e contese interne, restituire il mal tolto, pagare i debiti, fare beneficenza, rappacificarsi l’uno con l’altro affinché “questa Comunità possa risiedere in tranquillità e in pace e fra tutti i membri ci sia amore, fratellanza e amicizia”, pregando il Signore che “accetti il nostro pentimento e le nostre preghiere”.

     

    Molto spazio nelle Toledot è dedicato al caso Mortara, il bambino ebreo battezzato di nascosto dalla domestica cattolica all’età di un anno e poi, qualche anno dopo, nel 1858, prelevato a forza dalle guardie pontificie e mai più restituito alla famiglia. Del ruolo svolto da rav Fasani in questa dolorosa vicenda tratteremo nella prossima puntata.

     

     

    (Per maggiori informazioni su rav Fasani e la sua opera, vedi il mio saggio nel Catalogo della mostra appena inaugurata al Museo ebraico di Roma, “1849-1871, Ebrei di Roma tra segregazione ed emancipazione”, a cura di Francesco Leone e Giorgia Calò, Gangemi editore, 2021).

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