Quando Adamo ed Eva si resero conto di essere nudi, in quel momento la Bibbia fa coincidere, volendo utilizzare criteri e linguaggi che non appartengono al testo sacro, la nascita della coscienza umana.
In ogni modo, l’essere umano, ben prima della nascita della scrittura, ha incominciato a seppellire morti, a costruire altari, a scolpire e dipingere figure umane e animali. Ritrovamenti preistorici ci restituiscono l’immagine di gruppi umani che rappresentano se stessi e l’ambiente che li circonda in modo anche spettacolare (si pensi, ad esempio, alla grotta di Altamira in Spagna e a quella francese di Chauvet); dell’epoca preistorica sono stati trovati strumenti musicali (ad esempio, corni impiegati come percussioni, fischietti, flauti, trombe). Infine, gli antropologi hanno documentato che per le popolazioni primitive il gioco e la danza rappresentano un momento fondamentale per la coesione sociale.
Questi fenomeni posso essere considerati indicatori della propria posizione all’interno di una “mappatura esistenziale”, ovvero i gruppi umani una volta acquisita una sempre maggiore coscienza di sé, del proprio percorso di vita fisica e delle relazioni sociali, hanno avuto necessità di trovare schemi di autorappresentazione per dare un senso alla loro esistenza.
Questo spiega perché le religioni, le attività artistiche e quelle sportive svolgono un ruolo fondamentale, che genera passioni forti, ancora nella società contemporanea. Non a caso, il giro di denaro relativo a questi ambiti è enorme, anche tenendo conto che non si tratta di beni e servizi di prima necessità, perché sono occupazioni che restituiscono l’immagine di ognuno di noi all’interno del nostro universo.
Dunque non sono attività di rilevanza marginale nella vita di tutti i gruppi umani, compresi quelli culturali come sono le comunità ebraiche.
Spesso la tutela della propria identità ha maggior valore della protezione dei beni materiali in possesso della persona o del gruppo e anche superiore alla salvaguardia della stessa sopravvivenza fisica.
Quest’anno sono cinquecentotrenta gli anni trascorsi dell’espulsione degli ebrei dalla penisola iberica (1492) e progressivamente dai territori soggetti alla corona spagnola. Molti di questi, piuttosto che convertirsi al cristianesimo, rischiarono la loro vita, quella dei loro figli, rinunciarono a vivere nei luoghi nei quali risiedevano da generazioni e a tutti i loro beni materiali. Tuttavia, provvidero a portare via i testi biblici e di preghiera e ricostruirono la vita ebraica là dove gli fu consentito, compreso lo Stato ecclesiastico.
A questo proposito l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma “Giancarlo Spizzichino” conserva importanti testimonianze documentarie di questo straordinario avvenimento.
Il fenomeno ha riguardato anche altri momenti della storia e il nostro archivio è in grado di restituire molti spaccati delle vicende degli ebrei di Roma relativi sia all’età moderna, sia a quella contemporanea.
Durante l’era del ghetto (1555-1870) agli ebrei sarebbe stata di estrema convenienza la conversione al cattolicesimo perché ciò avrebbe dato loro maggiore possibilità di accedere ai vari segmenti del mercato locale e internazionale, nonché avere maggiori libertà di movimento rispetto a quanto consentiva la disciplina del ghetto, una sorta di prigione a cielo aperto.
Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento a Roma vi fu una minoranza di ebrei che tentò in tutte le maniere di ottenere la conversione al cattolicesimo, mentre la maggioranza di essi non fu neppure sfiorata dall’idea, rischiando, ancora una volta, i propri beni materiali, la vita e quelle dei propri figli pur di non rinunciare alla propria identità culturale.
Eroi inconsapevoli, ma consapevolmente ebrei.
Claudio Procaccia – Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma