Skip to main content

Ultimo numero Novembre – Dicembre 2024

Scarica il Lunario 5785

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    "Ripartire è come riavviare un computer" – L’intervista ad Etgar Keret

    Dopo aver tanto parlato del successo della campagna di vaccinazione, oggi lo sguardo del mondo è puntato su Israele per osservare il ritorno alla normalità e i suoi effetti. Nel racconto “Outside” – “Fuori”, scritto per il Decameron Project, pubblicato dal The New York Times Magazine all’inizio della pandemia – Etgar Keret aveva immaginato uno scenario paradossale in cui polizia ed esercito bussavano porta a porta per stanare i cittadini restii a uscire di casa. Abbiamo incontrato lo scrittore israeliano in un caffè a Basel, il quartiere in cui vive, a Tel Aviv.

    Cosa sta succedendo agli israeliani, nella realtà?

    “Vorrei iniziare raccontando che dopo la pubblicazione di “Outside” ho ricevuto delle email dal Giappone. Mi raccontavano che, pur senza il coinvolgimento della polizia o dell’esercito, effettivamente il Governo aveva dovuto mettere in atto una campagna per convincere le persone a uscire. Trascorrere meno tempo fuori casa, ordinare cibo a domicilio a qualunque ora, cucinare meno, rinunciare alla socialità… la pandemia ha spostato il confine della legittimità. Cosa si può considerare “ok”? Quante volte dovresti far visita a tua zia? Bisogna portarsi i bambini quando si va fuori per il weekend o è meglio lasciarli a casa? E’ come quando riavvii il computer. Tutto ciò che si faceva in automatico è tornato a essere nuovo. E si sente la differenza, davvero”. 

    Lo senti anche sulla tua stessa pelle?

    “Beh, non direi che sono diventato misantropo, durante quest’anno. Ma certamente sono più selettivo nell’interazione umana. Tendo a preferire l’email, il telefono o zoom. Frequento più spesso i miei migliori amici ma vedo meno gente rispetto a prima. Non è tanto per la pandemia in sé ma per aver compreso, in questo periodo, che molte cose nella mia vita erano decise per una sorta di forza d’inerzia. Oggi mi chiedo due volte se ho davvero voglia di fare una cosa, prima di accettare un invito. E la pandemia ci ha offerto una scusa perfetta per tirarci indietro. In un certo senso, il rapporto umano è diventato uno spazio più autentico. Alcune tradizioni e comportamenti culturali, come abbracciarsi e baciarsi, sono stati messi alla prova e sono tornati a essere una scelta e non una procedura standard”. 

    Cosa sta succedendo all’energia di Tel Aviv? 

    “Sai, Tel Aviv è la mia casa. Ho vissuto nello stesso appartamento per 40 anni. Ma contemporaneamente ho una specie di prospettiva da ebreo della diaspora. Anche se faccio parte di questo posto, riesce ancora a provocarmi stupore e incomprensione. Insomma, non mi sento un “Telavivian”. Per questo ti dico che non si può dissociare la pandemia dal resto che accade in Israele: le quattro elezioni, il processo al premier, la disoccupazione, che sono fattori dominanti e traumatici. Il senso di incertezza per il futuro non è solo colpa di un virus imprevedibile, ma dipende anche dal fatto di vivere in un paese che non sa in che direzione andare. Se non ci saranno le quinte elezioni, avremo per la prima volta al governo o un partito di estrema destra, fascista e omofobo, o un partito arabo islamico. Aspettarsi un esecutivo senza la partecipazione di forze radicali è diventato impossibile. Da un lato è la società israeliana stessa a essersi radicalizzata. Dall’altra c’è uno stallo causato dal rifiuto di Netanyahu di lasciare il gioco politico prima del termine del suo processo. In questa situazione, niente può davvero cambiare”. 

    Che effetto ha avuto la pandemia sulla tua creatività o nel modo in cui crei? 

    “È stato come vivere sulle montagne russe. L’inizio della pandemia ha coinciso con il periodo più creativo della mia vita. Qualcosa nella fissità improvvisa del mondo ha amplificato i miei sensi. Come se avessi vissuto fino a quel momento affacciato su una strada trafficata, che di colpo si è svuotata. E avessi iniziato a sentire il canto degli uccelli, a udire suoni che non percepivo e vedere cose che non vedevo. Dopo pochi mesi mi sono abituato al cambiamento e sono entrato in una fase di stagnazione o ibernazione. Come la modalità salvaschermo del computer. Credo che sia iniziata con l’aspettativa della campagna di vaccinazione. Mi sono messo in stand-by, in attesa di un futuro più chiaro. Ma questa chiarezza potrebbe anche non arrivare. C’è un modo di dire in yiddish, “nisht ahin, nisht aher”, né qui né lì.  Mi sento un po’ così, sono tempi difficili. 

    Ma stai comunque lavorando a qualche nuovo progetto?

    “Sì, sto scrivendo un thriller soprannaturale, una serie per la tv, che parla delle tensioni nella società israeliana: fra ashkenziti e mizrahi, fra laici e religiosi, fra destra e sinistra. La storia mette al centro la condizione umana, più che la narrativa politica. Credo che ci sia un elemento dominante nella mentalità israeliana: noi interiorizziamo alcuni paradossi e ossimori della nostra identità, per poterci convivere. Ad esempio, siamo un popolo antico in un paese giovane, produciamo innovazione e tecnologia ma siamo tradizionali e religiosi. L’idea di disattendere l’aspettativa di essere entrambe le cose, nella serie è presentata come una sorta di hybris tragica. I personaggi cercano di ignorare questa tensione e di vivere come se niente fosse. Ma finiscono per fare a pezzi la loro vita”. 

    CONDIVIDI SU: