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    Alla ricerca di nuove fonti. David Silberklang dello Yad Vashem spiega studi e ricerche sulla rivolta del ghetto di Varsavia

    «Gli auguri sono per i compleanni. Per gli eventi tragici si parte dal minimo che si possa sperare, cioè che non accadano mai più. Ma a 80 anni dalla rivolta del ghetto di Varsavia mi auguro che emergano nuove fonti non tedesche. E soprattutto di riuscire a risalire a molti più nomi di chi era lì, rinchiuso, nascosto e coinvolto nella rivolta, affinché possano essere ricordati, come è giusto che sia». David Silberklang, nel suo ufficio di Gerusalemme, all’International Institute for Holocaust Research a Yad Vashem, il memoriale della Shoah di Gerusalemme, ha l’aria paziente che ci si aspetta da un ricercatore della Shoah. Da chi, cioè, sa perfettamente che, anche dopo tanti anni di ricerca, le informazioni che si conoscono sono ancora poche rispetto alle lacune. Lo storico, fra i più illustri esperti di ghetti polacchi, ripone fiducia nella sorte che, negli anni, ha portato a galla, a sorpresa, materiale preziosissimo. Come le fotografie scattate da un vigile del fuoco polacco 23enne che mostrano il ghetto di Varsavia all’indomani della rivolta. Scoperte in soffitta dalla famiglia e diffuse a gennaio dal Museo di storia degli ebrei polacchi, le foto di Zbigniew Leszek Grzywaczewski sono le uniche immagini finora rinvenute, sulle conseguenze della rivolta, che non siano state scattate da tedeschi.

     

    È quindi possibile che materiale diverso da quello della propaganda ufficiale nazista possa emergere a distanza di tanto tempo? 

    Direi di sì. Magari di altri pompieri. O di cittadini polacchi che potrebbero aver scattato fotografie dall’esterno del muro, o disegnato scene a cui hanno assistito. O di soldati tedeschi, per uso privato. Uno studioso di Washington si sta dedicando agli album delle foto ricordo dei commilitoni. Pare che fosse un’usanza diffusa, a detta di quelli che li hanno conservati e messi a disposizione. Ne ha visionati 400, ma la sua stima è che, su milioni di soldati, questa sia solo una piccolissima parte. Dubito invece possano esserci fotografie scattate da ebrei del ghetto, impegnati a nascondersi o a combattere. Potrebbero semmai esserci altri disegni, come lo schema di un bunker tratteggiato da una donna nascosta e ritrovato nel suo diario. Le pagine originali sono conservate negli archivi del Lohamei HaGeta’ot, il museo dei combattenti del ghetto, in Galilea occidentale, ma una copia è esposta a Yad Vashem.

     

    Cosa significa portare avanti studi e ricerche? 

    Si impara sempre qualcosa di nuovo. E non solo perché le nuove generazioni guardano con altri occhi e si pongono domande diverse. Alcuni sono dettagli che aiutano comunque a tratteggiare meglio la situazione. Altre conoscenze potrebbero cambiare la lettura delle cose. Per decenni la ribellione del ghetto di Varsavia è stata ricordata come una tragica battaglia eroica. In effetti lo è stata, poi con il passare del tempo e nuove ricerche, abbiamo realizzato che fu in assoluto la prima rivolta urbana contro i tedeschi in tutta l’Europa occupata. Anche gli studi sul ruolo dei gruppi clandestini polacchi ha portato a maggiori sfumature sul loro atteggiamento poco solidale. Non si è trattato solo di antisemitismo. C’era uno scostamento di interessi. Anche i polacchi volevano organizzare una rivolta a Varsavia per liberare il Paese. Ma aspettavano il momento migliore, l’estate 1944. Gli ebrei invece dovevano agire immediatamente, nel ’43, o sarebbe stato troppo tardi. L’idea generale che la rivolta del ghetto di Varsavia sia stata una sommossa popolare è stata introdotta da Israel Gutman nel 1977 ma recentemente la storica israeliana Havi Dreifus ha pubblicato un libro in cui ha suggerito una diversa lettura. Ad esempio, ha rilevato che il vero problema per i tedeschi sono state le decine di migliaia di persone nascoste e che, per sostenere la rivolta, si sono rifiutate di uscire per essere deportate. In sostanza hanno costretto i tedeschi, rallentandoli, a entrare nel ghetto. Ha anche dimostrato, con un’analisi dettagliata e precisa, il collasso totale – sociale e civico – tra gli ebrei dopo la grande deportazione, nell’estate del 1942. E come questa crisi abbia portato al ritrovamento dell’unità e alla volontà di riscatto attraverso l’organizzazione di una rivolta. 

     

     

    Ha vissuto qualche delusione, come ricercatore, nel corso delle sue indagini?

    Molti anni fa, quando studiavo il distretto di Lublino in Polonia, venni a sapere che un tedesco, coinvolto nella deportazione, aveva conservato un album di fotografie. Me l’aveva detto un collega che aveva ottenuto il permesso di vederle e usarle per un saggio. Chiesi alla famiglia una copia per l’archivio ma avevano cambiato idea. Non volevano più che nessuno le vedesse, si erano pentiti di averle mostrate e vietarono l’autorizzazione di usarle in futuro. Di cose del genere devono essercene ancora molte in giro. Spero che chi ne è in possesso decida di metterle a disposizione e di non tenerle più nascoste, quali che siano le ragioni per farlo.

     

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