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    «Si aspetta la luna!». A Cagliari una retrospettiva su Eva Fischer a 100 anni dalla nascita

    Nella
    Roma del dopoguerra una pittrice attendeva a piazza Navona l’arrivo della luna
    piena, per poter dipingere con la giusta luce la città dove aveva scelto di
    vivere dal 1946. Quella giovane donna immobile e silenziosa era Eva Fischer che
    sotto lo sguardo degli amici e dei passanti curiosi, che chiedevano
    insistentemente cosa stesse facendo, affiggeva un cartello con su scritto «Si
    aspetta la luna!
    ». Un episodio semplice, di cui scrisse anche Oriana
    Fallaci in un articolo del 1954, ma che racconta di una Roma sognante fatta di
    incontri e di attesa per una ripartenza dopo anni difficili. Quel breve
    messaggio da ora il titolo alla retrospettiva dedicata alla Fischer al Palazzo
    di Città a Cagliari e che sarà visibile fino al 17 ottobre. La mostra a cura di
    Alan Davìd Baumann ed Efisio Carbone ripercorre, con oltre 130 opere e
    documenti, la carriera e la vita dell’artista scomparsa nel 2015 e di cui lo
    scorso anno cadeva il centenario dalla nascita. L’ampia selezione di dipinti,
    provenienti perlopiù dalla collezione della pittrice, va dagli anni ’40 ai
    primi 2000 e si snoda in un percorso espositivo che occupa più livelli dello
    storico palazzo del XIV secolo.   

    Quello
    della Fischer è un lungo percorso umano e artistico cominciato a Daruvar una
    città della ex Jugoslavia dove era nata nel 1920, figlia di Leopold un noto
    talmudista e Rabbino Capo della città. Una vita fatta di spostamenti prima per
    studio, diplomandosi all’Accademia di Belle Arti di Lione, per poi tornare a
    Belgrado dai genitori e vivere il terrore dei bombardamenti del 1941.
    Cominciavano così gli anni più dolorosi in cui i nazisti deportavano il padre e
    decine di parenti, l’internamento con la madre e il fratello minore nel campo
    di Vallegrande sotto l’amministrazione italiana e la vita a Bologna sotto falso
    nome. La memoria della Shoah si manifesta nei volti graffiati nella materia
    pittorica, in un ciclo di quadri realizzati nel segreto dello studio e mostrati
    solo decine di anni dopo, il dolore per la perdita paterna in un dipinto come
    il Taled di mio Padre del 1946 dove non c’è una presenza
    fisica, ma viene rievocata la sua figura attraverso il manto da preghiera.

    Poi c’è
    Roma. La Fischer faceva parte di quella vita bohémien
    che animava via Margutta e gli studi degli artisti come quello dello scultore
    Amerigo Tot, dove si scambiavano idee e progetti, che accoglieva due volte a
    settimana scrittori, registi, musicisti e i grandi personaggi di passaggio come
    Dalì e Picasso. Conosceva poi le tante anime della città: 
    dal
    riscatto di Corrado Cagli, ritornato dall’esilio volontario in America
    cominciato dopo le leggi razziali, al realismo politico di Renato Guttuso,
    dall’impegno civile di Carlo Levi ai grandi maestri come Mario Mafai e Giorgio
    de Chirico.

    Nel
    frattempo arrivavano i primi riconoscimenti con le mostre in Italia e
    all’estero. La sua tecnica si era fatta più personale, sovrapponendo sulle tele
    strati di colore che, una volta asciugati, le permettevano di grattare via
    dalla superficie i pigmenti per far emergere temi ricorrenti come quello delle biciclette e
    delle architetture dei Paesaggi mediterranei.

    Nelle vetrate per il Museo Ebraico di
    Roma, commissionate alla fine degli anni ’70, sono rappresentate le
    architetture di Roma, Gerusalemme e delle antiche città d’Israele e i cui
    bozzetti preparatori esposti in mostra non sono dissimili dalle vedute dei
    paesini sardi realizzati dall’artista nei suoi soggiorni estivi. Una
    testimonianza che crea un legame tra luoghi lontani, come propone Baumann che
    racconta come questa mostra «costruisca un ponte ebraico attraverso il colore
    che può unire l’antica comunità di Roma con Cagliari», città che ha visto una
    presenza ebraica fino al 1492 e che ha riscoperto, in anni recenti, le sue
    radici.

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