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    “La cultura ebraica ha definito il mio sguardo sulla vita” – Intervista a Roberto Saviano

    Alla edizione di quest’anno di Lucca Comics tra i fumetti dei supereroi, gli effetti speciali di un block buster come “Ghostbusters” e i tanti Manga spicca un fumetto diverso dagli altri. Una graphic novel disegnata e curata dalla mano dal disegnatore israeliano Asaf Hanuka che anche se in forma di fumetto, è a tutti gli effetti un’autobiografia che racconta un Roberto Saviano inedito e nuovo al suo pubblico e non solo. Saviano si palesa attraverso queste pagine, in un flusso temporale tra presente e passato sottolineato con estrema eleganza dallo strumento del disegno. E ovviamente in questo racconto personale non potevano mancare i 15 anni vissuti sotto scorta. Shalom lo ha intervistato.

     

    Saviano come ci si sente “nudo” davanti al suo pubblico?

     

    (Sorride), è difficile, ed è imbarazzante. Nel mio caso ti senti in colpa perché non sei morto. E dirlo, pronunciarlo, anche in questo momento, mi imbarazza molto. Il fumetto mi ha permesso di raccontare l’inenarrabile.

     

    Una graphic novel è una novità per lei…

     

    “Sono ancora vivo” è stata una sfida. Non a caso il titolo è preso da una frase di uno dei film più belli della storia del cinema come “Papillon”. Nella scena finale Steve McQueen, dopo la sua evasione, abbandonato su quella zattera di fortuna nel bel mezzo dell’oceano dice: “Maledetti bastardi, sono ancora vivo”.

     

    Allora ce l’ha fatta?

     

    Non io, ma la parola. La parola può ancora creare, può ancora scardinare qualcosa di nuovo in quest’inferno!

     

    Ma lei non è vivo per merito (o demerito) dei suoi persecutori…

     

    È vero, sono vivo non perché loro me lo hanno concesso. Gli è stato impedito di farmi del male. Non bisogna attribuire a queste persone l’onnipotenza. Non decidono loro chi deve vivere e chi deve morire.

     

    La sua graphic novel è stata disegnata da un fumettista israeliano come Asaf Hanuka. Chi è lui e come vi siete conosciuti…

     

    Asaf è un disegnatore straordinario. Lui è un “Mizrahi”, un ebreo di cui la famiglia è proveniente da paesi arabi. Sua madre è irachena e suo padre è curdo. Come dice lui stesso, “Da ebreo d’Oriente conosco bene il Mediterraneo e le sue problematiche, i suoi codici di vita”. Non ci siamo mai sentiti distanti. Avevo visto “Valzer con Bashir” (il film di Ari Folman) che Asaf aveva disegnato insieme al fratello Tomer, e mi era piaciuto enormemente. Cosi, dopo aver letto anche una serie di libri suoi come “KO a Tel Aviv” e “Il divino” mi sono messo sulle sue tracce. Gli ho chiesto se voleva mettere mano alla mia storia e lui ha accettato subito. “Mi piace la tua storia”, ha detto semplicemente. Abbiamo lavorato per cinque anni per trovare l’equilibrio giusto tra parola e disegno, per raccontare una storia, questa storia in cui dal dolore si rinasce.

     

    Quale è il suo rapporto con la cultura ebraica?

     

    È un rapporto profondissimo. È cominciato sin dall’infanzia. Oggi mi ritengo ateo ma la religione in questo caso non conta molto. Personalità come quelle del filosofo Martin Buber, o Gershom Scholem, la grande tradizione letteraria ebraico americana, da Saul Bellow a Chaim Potok, Isaac Bashevis Singer e Allen Ginsberg, con le sue storie mitiche, hanno significato molto per me. Insomma la cultura ebraica ha definito il mio modo di guardare il mondo. Perciò non poteva che essere un disegnatore ebreo ad accompagnarmi in questa mia discesa nella “Cabbalà della vita”.

     

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