Pubblichiamo di seguito il discorso
tenuto dal Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni in apertura del convegno
internazionale “New documents from the pontificate of Pius XII”.
Prima di entrare nel merito del tema dell’iniziativa,
Rav Di Segni ha sottolineato come questa, pur programmata da tempo, cada in un giorno
molto triste, a causa dell’attacco ad Israele: per questo i nostri pensieri
sono lontani e non manca una grande preoccupazione per ciò che sta avvenendo.
Desidero portare il mio
saluto a questo importante
convegno, ringraziando gli organizzatori e i relatori per questa realizzazione,
la cui importanza non deve essere sottovalutata.
Questo è, e dovrebbe essere, un convegno storico e scientifico. Ma non possiamo ignorare che l’oggetto di studio non è quello di un periodo storico
lontano nel tempo, nel
luogo, nelle persone. È vero, sono passati decenni, ma la memoria resta viva, non è ancora sublimata in storia, è carica di emozioni, una ferita aperta nei sopravvissuti e trasmessa ai loro discendenti, in particolare a coloro che
vivono in questa città. Proprio oggi, in data ebraica, 24 di Tishri, è esattamente il giorno in cui 80 anni fa il treno dei
deportati del 16 ottobre arrivò ad Auschwitz e 800 persone selezionate andarono
nelle camere a gas; e il martirio degli ebrei romani è solo un piccolo campione
tra i milioni di persone toccate da questi
fatti.
Gli illustri relatori di questo convegno non hanno certamente bisogno di lezioni di metodo. Piuttosto, molto più che loro, sono le persone come me che seguono i lavori che dovranno fare
in questi giorni delle distinzioni essenziali. La prima è tra emozione e storia, analizzare i dati per quelli che sono, riuscire a trovare
quel giusto distacco che serve in ogni ricerca obiettiva.
Un’altra distinzione riguarda i diversi piani coinvolti. C’è la dimensione
religiosa, con le responsabilità del vertice di una grande religione, che è
diversa, per quanto sia storicamente ad essa legata, dalla dimensione politica, la conduzione di uno stato tra i
grandi eventi della storia e le innumerevoli microstorie
di sofferenze individuali; c’è il piano diplomatico, con le sue regole e procedure, che ha giocato un ruolo non
indifferente negli avvenimenti; e
c’è il piano morale,
il giudizio che coinvolge una suprema autorità religiosa e l’istituzione stessa che guidava. I risultati delle
ricerche che verranno presentati ci faranno capire meglio quello che è stato fatto o fatto in modo inadeguato, e
quello che non è stato fatto e quali erano i criteri che orientavano le scelte.
Saranno molti tentati a concludere che quindi ha
fatto bene, o quindi ha fatto male, che non poteva fare altrimenti, oppure poteva fare molto di più, che era mal consigliato,
o che era ben consigliato. Lo storico ci aiuterà a capire l’inquadramento e lo
svolgimento delle vicende, ma il piano della morale è
diverso.
In particolare, c’è un’altra distinzione da fare, che nasce dal problema della contestualizzazione. È chiaro che il mondo è molto cambiato da allora e tra le tante cose sono
cambiati radicalmente i rapporti tra cristianesimo e ebraismo. Allora non c’era il dialogo e la chiesa non amava gli ebrei; è vero che l’istituzione Chiesa
rigettava il razzismo biologico anche se molti fedeli l’avevano abbracciato;
tuttavia la Chiesa era carica di antigiudaismo radicato nei secoli; le sofferenze ebraiche erano teologicamente giustificate, almeno un po’, evitando gli eccessi, dal fatto che gli ebrei dovevano scontare
il loro delitto primordiale.
Se si tiene presente questo contesto, molte cose che oggi sarebbero inspiegabili trovano un loro inquadramento. Ma un conto è la spiegazione delle dinamiche, altro conto è la giustificazione morale. Il divieto di uccidere è scolpito sulle tavole della legge da 34 secoli.
Per un tragico paradosso molti degli uccisori degli ebrei professavano
religioni che facevano riferimento a quelle stesse tavole.
Quando nel gennaio del 2010 papa Benedetto XVI venne in visita nella
Sinagoga di Roma, ripetendo
il gesto storico del suo predecessore, nel discorso di saluto dissi queste
parole: “Il silenzio di D. o la nostra incapacità di sentire la Sua voce
davanti ai mali del mondo, sono un mistero imperscrutabile. Ma il silenzio
dell’uomo è su un piano diverso, ci interroga, ci sfida e non sfugge al
giudizio.”
Di quale giudizio parlavo. È il giudizio di ognuno di noi, di persone comuni che sono state coinvolte dai fatti e di tanti
altri che studiano la storia che si interrogano sulle responsabilità morali, che sono tanto più grandi quando si è investiti
del ruolo di guide spirituali. Sono le persone di buon senso che vogliono
capire, senza per questo costituirsi in una corte giudicante che emette sentenze inappellabili. Quello che tutti noi ci
aspettiamo però, in questo momento particolare di grande verifica
storica, è che i nostri sentimenti e
ricordi dolorosi, siano rispettati e non siano offesi dalle sentenze di altri
tribunali, assolutori e apologetici a ogni costo.
Il dialogo ebraico cristiano di cui si occuperà questo convegno nasce da
una revisione totale di posizioni che hanno seminato sofferenze e drammi nella storia. Questa revisione
è stata una crescita spirituale reciproca che dobbiamo mantenere e promuovere.
Le grandi festività ebraiche che abbiamo celebrato nei giorni scorsi hanno
insistito sul tema della teshuvà, che è il ritorno da una strada
sbagliata. Se siamo in grado di fare teshuvà il volto divino ci
illuminerà. Lo studio del passato, che non può essere cancellato, ci aiuterà
meglio in questa svolta. È l’auspicio di tutti che il nostro convegno sia una
tappa fondamentale di questo percorso. In questi termini auguro buon lavoro a
tutti i convegnisti.