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    STORIE DI MARITI VIOLENTI

    “Nel 1536, Shabbatai ben Rafael Duriel fece giuramento che non avrebbe picchiato o frustato la moglie Laura fino a che questa non avesse abbandonato la casa del padre, Shabbatai di Limentani, dove si era rifugiata durante un litigio matrimoniale per motivi di soldi. Ma una volta tornata, sarebbe stato liberato dal giuramento e avrebbe potuto «flagellarla nel modo in cui si castigano le donne, le vergini modeste e quelle che osservano le regole»”.

    È una delle storie romane di liti con violenza coniugale che sono emerse dagli studi archivistici e che sono state pubblicate da Kenneth R. Stow e Sandra Debenedetti Stow (Donne ebree a Roma nell’età del ghetto: affetto, dipendenza, autonomia, La Rassegna Mensile di Israel  1986, 52:1 pp. 63-103, 105-116). Le coppie litigavano, spesso le mogli si rifugiavano a casa dei genitori, la questione diventava di dominio pubblico e le autorità rabbiniche o civili ebraiche cercavano di mettere pace ove possibile. Prosegue Stow: 

    “Se talvolta consentivano al marito di picchiare la moglie che peccava, non glielo permettevano a suo arbitrio. Moglie e marito avrebbero dovuto essere sempre giudicate davanti al Din Torah: se il marito «dava pugni o botte con sassi», la moglie poteva rivolgersi agli arbitri. E il marito che «picchiava la moglie senza alcuna giustificazione o torto da parte sua, e si comportava con crudeltà tale» che questa fuggiva di casa e tornava dal padre, veniva condannato”. 

    Nel caso sopra citato, l’uso della forza 

    “venne consentito a Shabbatai Duriel, per esempio, soltanto quando «ce n’era bisogno», e solo ogni tanto, e  «con [solo] una cinta leggera», frase che viene tradotta dall’ebraico in italiano dal notaio stesso: «Salvo d’una legera castigatione secondo come la legie permetta»”. 

    Povera Laura Limentani.

    L’antico tema della violenza di genere, nei rapporti uomo-donna (uomini violenti con le donne) è stato al centro dell’attenzione in questi giorni, prevalendo anche sulle notizie del fronte Israele-Palestina. Sono state le notizie tristissime di cronaca (neppure una novità purtroppo) ad accentuare la tensione, nei giorni precedenti la data prevista per una manifestazione che quest’anno ha visto in piazza decine di migliaia di partecipanti. Anche se per alcuni gruppi promotori, tra cui “Non-una-di-meno” (aggiungerei: ebree- escluse) le vittime ebree non sono da considerare troppo, è molto interessante vedere come questo aspetto particolare del tema (specificamente il marito che picchia la moglie) sia vissuto nell’ebraismo, tra le fonti tradizionali e la realtà sociale. Sollecitato dal film di Paola Cortellesi “C’è ancora domani”, che fotografa una situazione di violenza domestica romana nell’immediato dopoguerra, con un marito violento che picchia continuamente la moglie, mi sono chiesto se a quei tempi, e anche oggi, la cosa si verificasse anche in famiglie ebraiche. Non ci sono, che io sappia, studi specifici sull’argomento, ma solo testimonianze aneddotiche e denunce ai servizi sociali. Interrogando varie persone emerge che si sa che certe cose avvenivano anche tra ebrei, e che in qualche caso avvengono anche ora, casi drammatici ma sembra sporadici. Non abbiamo però un’idea precisa dell’estensione del fenomeno allora e oggi e come sia distribuito nelle fasce sociali, Nel mondo ebraico più vasto il fenomeno esiste ed è sempre più controllato e denunciato, e non fa differenza la religiosità della famiglia. In giornali ebraici americani, anche religiosi, ci sono pubblicità con numeri verdi di assistenza ed emergenza, con inviti a non tacere. Lo stesso accade anche in Israele. 

    Come si è visto con la citazione all’inizio, non si tratta di una novità nella nostra storia. Beninteso, leggendo quell’articolo, si apprende anche che non erano solo i mariti a picchiare le mogli ma succedeva anche il contrario, ed erano le mogli stesse o il padre e i fratelli di lei ad agire (si noti come questo aspetto oggi sia del tutto trascurato nella protesta pubblica). Quello che succedeva cinquecento anni fa a Roma è il seguito di una storia antica che non si è mai fermata. La questione da chiarire è quali siano le regole della halakhà su questo argomento. Una halakhà che, come sempre, mostra evidenti segni di visioni differenti. È chiaro che si parte da un sistema famigliare di tipo patriarcale, anche se questa parola oggi suona offensiva e si chiede di abolire il sistema. Maimonide prescrive che

     “la moglie deve onorare molto il marito, temerlo e fare tutto secondo le sue istruzioni e che sia ai suoi occhi come un principe o un re” (Ishùt 15:20). 

    Nulla di più maschilista. Ma questa è una delle due facce del problema, perché al paragrafo precedente lo stesso Maimonide  prescrive: 

    “I Maestri hanno ordinato che l’uomo debba onorare la moglie più del corpo di lui e amarla come il corpo di lui e se ha dei soldi deve spenderne molti per il bene di lei a seconda delle facoltà di lui; non deve imporle un timore eccessivo, deve parlare con lei tranquillamente non deve essere con lei nervoso o iracondo”; le fonti aggiungono che chi fa così realizza quanto è scritto:” Saprai che la tua tenda è in pace” (Giobbe 5:24).

     L’immagine codificata da Maimonide è quella della armonia in cui comanda l’uomo ma il rispetto per la donna deve essere massimo. Quello dell’obbedienza è un principio generale, che poi nella pratica verrà declinato con molta elasticità secondo le situazioni. E si pensi come questa teoria dell’obbedienza contrasti con la storia biblica di Sarà che impone la sua scelta al marito Abramo, con l’avvallo divino: “tutto quello che ti dirà Sarà, ascolta la sua voce” (Bereshit 21:12); un’espressione che per le femministe religiose ebree di oggi è diventata uno slogan.

    Passando poi alla pratica della violenza domestica, il principio del rispetto diventa una regola. Lo stesso Maimonide, che aveva prescritto che si può costringere una moglie che si rifiuta di svolgere i lavori che è tenuta a fare anche con la frusta, (Ishùt 21:10) venne severamente contraddetto dal contemporaneo (stiamo nel XII sec.)  Avraham ben David di Posquières: “non ho mai sentito che si frustino le donne”, preferendo altri sistemi morbidi di pressione. Maimonide scriveva in Egitto e rabbì Avraham in Provenza. Un secolo dopo Rabbènu Asher, trasferito dalla Renania alla Spagna, chiuse la questione scrivendo che non si costringe la donna in alcun modo. 

    Di qui alla regola codificata:

     “Con chi picchia la moglie bisogna essere più rigorosi che con chi picchia una persona qualsiasi, perché non si è tenuti a onorare le persone, ma la moglie si è obbligati a onorarla, e chi si comporta così segue le abitudini dei non ebrei e guai a ogni ebreo di fare così e chi si comporta così bisogna scomunicarlo e interdirlo, frustarlo e punirlo con ogni tipo di punizione”.

    Questa regola appare nel principale codice di halakhà, lo Shulchan Arukh, in una lunga aggiunta proprio alla fine delle regole sul divorzio, scritta dal Remà, rav Moshè Isserles (cap. 154:3, pubblicata nel 1570). Si noti il rilievo sociale: questi non sono comportamenti ebraici.

    Alla regola generale segue una precisazione:

     “Se è lei a cominciare le ostilità e lo maledice senza motivo o offende il suocero o la suocera, lui la ammonisce e lei non se ne cura, la questione è controversa: c’è chi dice che è permesso picchiarla, e c’è chi dice che è proibito picchiare anche una donna cattiva”.

    Tra le due opzioni il Remà preferisce la prima. Remà viveva a Cracovia e nelle sue parole sembra di sentire l’eco delle decisioni romane: evitare la violenza il più possibile, ma in certi casi, quando la moglie provoca e offende, si può rispondere. 

    La regola si accompagna a un’altra: se un marito provoca una lesione fisica alla moglie deve rifonderla economicamente come si fa per ogni lesione inflitta ad altri, in cui si calcola il danno, il dolore e la vergogna (e le spese mediche che comunque sono sempre a carico del marito) (Shulchan Arukh Even haEzer 83).

    Oggi nessun decisore direbbe che in certi casi si possono alzare le mani. Per gli storici la halakhà nelle sue controversie antiche è stata influenzata da condizioni ambientali e sociali. A differenza del medioevo in cui la posizione della donna era più forte, nel XVI secolo ci fu un’evoluzione patriarcale piuttosto dura, nella società in generale e di riflesso anche in quella ebraica, e questo spiegherebbe le pur limitate concessioni alla violenza domestica date dalle autorità romane. Per altri la halakhà segue le sue dinamiche senza tanti condizionamenti.

    Se poi ci riportiamo alla realtà attuale c’è da chiedersi quanto i pochi –ma sempre troppi- mariti violenti di oggi si sentano autorizzati a comportarsi così dalle norme tradizionali, interpretate a proprio fine.  Molto probabilmente le ignorano del tutto e agiscono secondo pratiche sociali accettate da qualcuno. Difficilmente potrebbero trovare oggi un sostegno rabbinico.

     

    Ringrazio Serena Di Nepi per la consulenza storica

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