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    "Sono cinquant’anni che subiamo ingiustizie" – Intervista ad Ilana Romano, moglie di una delle vittime del massacro di Monaco ’72

    Cinquant’anni sono trascorsi dall’attentato alle Olimpiadi di Monaco di Baviera nel 1972: l’evento sportivo diventato massacro, fisico e mediatico, degli atleti della delegazione israeliana. Una tragedia avvenuta alla luce del giorno, sotto gli occhi del mondo. Un connubio tra i fantasmi del passato di una Seconda Guerra Mondiale non troppo lontana e il più recente terrorismo islamico. Nello stesso luogo nel quale erano stati sterminati milioni di ebrei per la sola colpa d’esser nati, ecco che altri 11 innocenti venivano torturati e poi uccisi per la medesima colpa: essere scesi in campo avvolti nella bandiera d’Israele. Le Olimpiadi non si fermarono, continuarono imperterrite come se nulla fosse accaduto. Una sola cerimonia di commemorazione fu organizzata nello stadio olimpico. Troppo poco, secondo molti, per le eccellenze dello sport israeliano. Tra le vittime dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero, vi era anche il pesista di origini italo-libiche Yossef Romano, l’unico che abbia provato a opporre resistenza, a respingere i terroristi, pagando forse il prezzo più caro: la mutilazione e poi l’umiliazione, oltre che la morte. Un attimo prima della cinquantesima commemorazione del massacro che ha segnato la storia, la moglie Ilana Romano racconta a Shalom della rabbia che ancora nutre nei confronti del governo tedesco, e dell’amore che mai smetterà di nutrire per il suo Yossi.

    Ilana, torniamo indietro nel tempo, a quel lontano 5 Settembre 1972. Qual è il primo ricordo che hai del giorno dell’attentato?

    Ricordo innanzitutto ciò che è avvenuto prima dell’attentato, quando il giorno precedente alla sua partenza a Monaco, dissi a mio marito: “Ho paura, non so perché, ma tremo”. Avevo la sensazione che qualcosa potesse succedere, qualcosa di brutto. Lui mi rassicurò dicendomi che i tedeschi fanno sempre tutto per bene e che anche questa volta non avrebbero lasciato spazio ad errori di alcun tipo, certo non ad eventuali attacchi terroristici.

    Invece, avevi ragione tu.

    Avevo ragione io. Il 5 di Settembre, una vicina di casa ha bussato alla porta e mi ha chiesto se ho notizie di ciò che è accaduto alle Olimpiadi. Parlava di un attentato, di un morto. All’epoca il telefono non era in uso come oggi e non ero stata aggiornata di nulla. Ho immediatamente contattato il responsabile della delegazione israeliana, e lui mi ha raccontato che Moshe Weinberg era stato ucciso. Nessun’altra notizia, nessuna risposta alle mie domande.

    Ciò significa che in quel momento tu sai che ci sono degli attentatori a Monaco e sai che tuo marito potrebbe essere una delle vittime, ma non ne hai ancora la piena certezza.

    Esattamente, ma ho fatto un semplice ragionamento. Ho pensato che Yossi sapeva che io temevo un attentato, gliene avevo parlato un attimo prima della partenza. Yossi sapeva anche che le notizie corrono e che presto sarei venuta a sapere di Weinberg. Ho pensato che se fosse stato vivo, mi avrebbe contattata. Che mi avrebbe fatto sapere che è in salvo. Ma non l’ha fatto.

    Come si vive in questo limbo? Come si sopravvive all’ignoto, tra la vita e la morte? 

    Ogni squillo del telefono mi faceva sussultare. Poi, alle 18:00, quando la mia casa era già piena di familiari, hanno bussato di nuovo alla porta: era il responsabile della delegazione accompagnato da un poliziotto e da un medico. Mi dissero che Yossi era ferito gravemente, ma io sapevo che stavano mentendo. Dissi loro: “Vedo le vostre facce, non state dicendo la verità. Guardatemi negli occhi e ditemi cosa è successo a mio marito”. Loro risposero che Yossi era la seconda vittima dell’attentato. Yossi era stato ucciso.

    Cosa provi in quel momento? 

    Sono semplicemente svenuta. Ho perso i sensi e sono caduta sul pavimento.

    Non ricordi nulla di quegli attimi?

    Assolutamente nulla. Era come se il mondo fosse svanito e io insieme a lui. Mi svegliai il giorno dopo e non osai chiedere se fosse stato un incubo o se era la realtà. Poi vidi gli occhi rossi di chi circondava il mio letto e capii. Non dovetti chiedere nulla e non ricevetti risposte, era già tutto chiaro. In quel momento desideravo solamente che i suoi compagni tornassero in Israele per raccontarmi ciò che era accaduto, e non mi era nemmeno passata per la mente l’eventualità che anche loro fossero stati uccisi. Poi, quando sono andata in aeroporto a ricevere la bara di Yossi, d’un tratto ho visto un’altra bara, e un’altra ancora, e un’altra ancora. Erano Berger, Friedman, Spitzer, Springer. Tutti i suoi compagni di delegazione erano stati uccisi.

    Realizzi così, d’un tratto, che nessuno ti avrebbe mai raccontato cosa è realmente accaduto a tuo marito. 

    Proprio così. Erano momenti difficilissimi, impossibili da sopportare. Yossi sognava di arrivare alle Olimpiadi, ma mi aveva promesso che quella sarebbe stata la sua ultima gara. Poi si sarebbe dedicato a noi, alla famiglia. Lui era l’amore della mia vita, era il padre delle mie tre figlie. La più piccola, aveva solo cinque mesi.

    Come hai spiegato alle bambine l’uccisione del loro papà? 

    Quel giorno non le ho viste, me le hanno portate solo l’indomani. Sono entrate nella mia stanza con le labbra tremanti e gli occhi rossi. Avevano paura di piangere vicino a me. Io dissi loro: “Potete piangere, ci è successa una cosa terribile bambine, potete piangere”. Loro mi chiesero chi aveva ucciso papà, e io risposi che erano stati dei terroristi. “Arabi?”, mi hanno domandato. “Terroristi”, ho ribadito. Yossi aveva diversi amici arabi nell’ambito sportivo, grandi atleti anche loro. Non volevo che le mie bambine perdessero la fiducia nel prossimo, non volevo che cominciassero ad avere paura dei vicini. Poi le ho abbracciate, le ho assicurate che avrei fatto loro da mamma e da papà, che non avrebbero mai sentito la mancanza di nulla. “Racconteremo a tutto il mondo chi era papà, nessuno lo dimenticherà mai”, promisi. Sono trascorsi cinquant’anni da allora, e ho sempre mantenuto la promessa. Non l’ho mai infranta.

    I tedeschi si sono scusati con te? Si sono assunti la responsabilità dell’accaduto?

    Quando i corpi di Yossi e dei suoi compagni arrivarono all’aeroporto, prima ancora della loro sepoltura, il Ministro degli Interni tedesco Hans-Dietrich Genscher, aveva spedito telegrammi ovunque, dicendo che la Germania non aveva alcuna colpa, che non era coinvolta in alcun modo nell’attentato. Io sono convinta invece che la Germania abbia incentivato il terrorismo e non mi darò pace finché il più grande degli storici tedeschi non farà emergere tutta la verità. Noi abbiamo prove certe del fatto che gli assassini di Yossi si trovavano in Germania tra il 1974 e il 1984, e che vivevano in totale libertà. Sappiamo che non hanno mai scontato la loro pena, mai, nemmeno un singolo giorno. E a noi, le vittime, cosa ci è stato detto? Che per colpa nostra il terrorismo era arrivato a Monaco. Che i terroristi combattevano per la loro libertà. Sono cinquant’anni che subiamo queste ingiustizie, queste meschinità.

    Senza testimoni oculari, come hai scoperto ciò che era successo a Yossi?

    Non ho smesso un attimo di indagare, di scavare a fondo di questa storia, risalendo a tutti i documenti archiviati dell’investigazione. Poi, un giorno, mi ha contattato il mio avvocato dicendomi di aver ricevuto delle fotografie del tutto inedite che mostravano ciò che era accaduto nella stanza in cui si trovava Yossi. Quando sono arrivato da lui, si era già pentito, non voleva più farmele vedere, diceva che erano troppo terribili. “Nulla è più terribile della mia immaginazione”, gli spiegai, e lui accettò. Me le fece vedere.

    Si racconta che Yossi tentò di fermare i terroristi e che il suo cadavere fu mostrato agli altri ostaggi, come monito a non tentare la resistenza. Si racconta che Yossi venne violentato, evirato e lasciato agonizzare davanti ai suoi compagni.

    È tutto vero, l’uccisione che subì mio marito fu la più terribile che si possa immaginare, con le torture più atroci tipiche della cultura degli assassini. Quando Spielberg disse di volere le fotografie per la realizzazione del suo film Munich, chiesi solamente che le parti intime di Yossi venissero oscurate. Inizialmente il buon regista ebreo non accettò, ed io ne rimasi delusa e ferita. Poi, dopo grandissime pressioni, si arrese.

    Ti ha stupito scoprire che tuo marito fu l’unico a rivoltarsi contro i terroristi? 

    Assolutamente no, ero convinta che l’avrebbe fatto. Era così Yossi. Lui non avrebbe mai permesso che degli altri ebrei venissero uccisi ingiustamente in Germania. Non più.

    Sei orgogliosa di lui per aver tentato quest’ultimo atto eroico? 

    No, sarei stata più orgogliosa di lui se fosse tornato a casa vivo, non in una bara.

    Che marito era Yossi?

    Era il marito perfetto, mi trattava da regina, non mi ha mai detto di no, ha sempre realizzato ogni mio desiderio. Con lui, se n’è andato anche un pezzo del mio cuore, della mia anima, della mia felicità.

    E che padre era?

    Le bimbe non andavano a dormire senza il suo bacio della buonanotte, senza che lui le alzasse e le facesse saltare in aria. Sempre più in alto. Mi credi se ti dico che non ha mai alzato la voce con loro? Che non le hai mai sgridate?

    Ti credo Ilana. Oggi, come te lo immagini?

    Me lo immagino con i suoi bei capelli ricci, che mi guarda, mi osserva. Anche cinquant’anni dopo, non posso resistere al suo sguardo.

    Quando pensi a lui, cosa ti manca di più?

    Mi manca soprattutto ciò che non abbiamo vissuto insieme. Mi è mancato al matrimonio delle nostre figlie e alla nascita dei nostri nipoti. Mi manca quando penso a ciò che non ha fatto in tempo a vedere, a vivere.

    Sono trascorsi cinquant’anni Ilana. Dopo Yossi, hai mai più amato? 

    No, Yossi era e rimane il più grande amore della mia vita.

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