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    La “dolce morte” di Rabbi Chaninà ben Teradiòn – L’eutanasia secondo l’ebraismo in un caso narrato nel Talmud

    Regolarmente si torna a parlare in Italia dell’eutanasia. Qual è il punto di vista ebraico su questo tema? Senza pretendere di essere esaustivi su un argomento complesso e dai numerosi risvolti, proviamo a evidenziarne i princìpi generali partendo da un racconto del Talmud. L’episodio si svolge durante le dure persecuzioni degli ebrei sotto l’imperatore Adriano, dopo la rivolta di Bar Kokhbà del 132-135. Nonostante i Romani avessero proibito lo studio della Torà, Rabbì Chaninà ben Teradiòn – uno dei più importanti maestri dell’epoca, la cui figlia Beruria andò in moglie a Rabbì Meir – continuava a insegnare Torà pubblicamente, portando costantemente con sé un Sefer Torà. Alla fine fu catturato dai Romani e messo a morte. Rabbì Chaninà, insieme a Rabbì Aqivà e a Rabbì Yishmaèl, fu uno dei “dieci martiri” morti durante le persecuzioni romane. Ecco come l’episodio è raccontato nel Talmud, nel trattato Avodà zarà (18a), qui sintetizzato e adattato per ragioni di spazio:

     

    Rabbì Yosè ben Kismà, a letto malato, disse a Rabbì Chaninà ben Teradiòn che era andato a fargli visita: Chaninà, fratello mio, ho sentito dire che tu studi Torà, raduni gente e stai sempre abbracciato a un Sefer Torà! Gli rispose R. Chaninà: Dal Cielo avranno pietà di me. R. Yosè gli disse: Io ti dico cose sensate e tu mi rispondi dicendo “avranno pietà di me dal Cielo”? Mi meraviglierei se non ti bruceranno con il fuoco insieme al Sefer Torà! […] Dopo pochi giorni R. Yosè ben Kismà morì. Tutti i più importanti cittadini romani parteciparono al suo funerale e gli fecero una grande commemorazione. Al loro ritorno trovarono R. Chaninà ben Teradiòn che studiava Torà, radunava gente e stava abbracciato a un Sefer Torà. Lo catturarono, l’avvolsero nel Sefer Torà, lo circondarono con dei rami e accesero il fuoco, mettendogli sul petto spugne di lana imbevute d’acqua per prolungarne l’agonia. Gli disse allora sua figlia: Padre, è questa la ricompensa a cui devo assistere? Le rispose: Se io bruciassi da solo, mi sarebbe difficile sopportarlo; ma ora che brucio insieme al Sefer Torà, chi esigerà una riparazione per l’offesa recata alla Torà la richiederà anche per l’offesa a me. Gli chiesero poi i suoi allievi: Maestro, cosa vedi? Disse loro: I fogli bruciano ma le lettere volano in alto. Gli allievi allora dissero: Apri la bocca e fai entrare il fuoco dentro di te [per accelerare la fine]! R. Chaninà rispose loro: È meglio che si riprenda l’anima Colui che l’ha data piuttosto che sia l’uomo a provocare un danno a sé stesso. A quel punto il centurione romano là presente gli disse: Maestro, se io aumento le fiamme e ti tolgo le spugne di lana da sopra il petto, mi porterai con te nel mondo futuro? Sì, gli rispose R. Chaninà. Allora quello disse: Giuramelo! R. Chaninà glielo giurò e immediatamente il centurione aumentò le fiamme e tolse le spugne di lana. Presto l’anima del rabbino si dipartì e anche il soldato si gettò dentro al fuoco. Uscì una voce dal cielo che disse: Rabbì Chaninà ben Teradiòn e il centurione sono invitati alla vita del mondo futuro! Rabbi [Yehudà ha-Nasì] pianse e disse: C’è chi si procura la propria parte del mondo a venire con un’ora sola e chi con tanti anni”

     

    Questo racconto, insieme con altri passi del Talmud e dei testi rabbinici successivi, è spesso citato nella discussione sull’eutanasia. Un insegnamento che se ne può ricavare è che la santità della vita ha un valore infinito. Anche pochi istanti di vita meritano di essere vissuti. Grazie a quei pochi attimi in più che Rabbì Chaninà trascorse fra le fiamme per essersi rifiutato di accelerare la morte, il centurione fece teshuvà, ossia decise di “cambiar vita” (in questo caso letteralmente). L’uomo non è padrone della propria vita ma ne è solo il depositario e non può quindi essere l’uomo stesso a decidere quando concludere la propria o altrui vita.

     

    La legge ebraica è chiara. Ogni azione che porta alla fine della vita è considerata un omicidio, che è una delle più gravi proibizioni della Torà. Viceversa, curare il malato è un obbligo per il medico e per chiunque ne abbia la possibilità; ed è anche un obbligo per il paziente stesso farsi curare. È un ordine esplicito “salvaguardare la propria vita” (Deut. 4:15 e Giosuè 23:11; vedi Kitzùr Shulchàn Arùkh 32:1) e “non rimanere inerte se il tuo prossimo è in pericolo” (Lev. 19:16; vedi comm. di Rashì).

     

    Lo Shulchàn Arùkh, il codice legale ebraico, riporta in dettaglio ciò che è vietato fare per il timore di accelerare la morte di un paziente: ad esempio, è proibito togliere il cuscino da sotto la testa di un malato in agonia o anche solo chiudergli gli occhi. Ciò sarebbe considerato come uno “spargimento di sangue”. Il Talmud afferma che il caso assomiglia a quello di una flebile fiamma, per la quale anche un piccolo movimento può provocarne lo spegnimento: l’analogia non è casuale, dato che l’anima umana è chiamata il “lume di D-o” ( Proverbi 20:27).

     

    La Halakhà contempla però anche il divieto di impedire il decorso naturale. Così stabilisce lo Shulchàn Arùkh: “Se c’è qualcosa che impedisce la dipartita dell’anima, per esempio se c’è un suono ritmico vicino alla casa [dove si trova il paziente], come il rumore causato da un taglialegna [che entra in risonanza con il battito del cuore], o c’è del sale sulla sua lingua, e queste cose impediscono la dipartita dell’anima, allora è permesso eliminarle: in questo caso, infatti, non si tratta affatto di un atto concreto ma della rimozione di un impedimento”. È quindi lecito (e anzi, forse anche doveroso) rimuovere eventuali ostacoli che mantengano artificialmente in vita un paziente.

     

    L’eutanasia è quindi assolutamente vietata, però ciò non implica che si debba ricorrere a un accanimento terapeutico in caso di malati terminali: se l’unico scopo del trattamento è prolungare artificialmente la vita, questo è proibito. La posizione ebraica è: No all’eutanasia e no all’accanimento terapeutico. Il problema principale è identificare la precisa linea di demarcazione fra un’azione che, direttamente o indirettamente, causi la morte e un’altra che, sospendendo l’accanimento terapeutico, si limiti solo a permettere il decorso naturale. Il distacco della macchina che assicura la respirazione artificiale, senza la quale il malato terminale non sarebbe in grado di sopravvivere, è uno dei casi maggiormente in discussione, con diverse opinioni fra le autorità rabbiniche contemporanee. È bene comunque ricordare che nella legislazione ebraica ogni singolo caso va valutato come un caso a sé stante e va sempre sottoposto al giudizio del Tribunale rabbinico competente, che esaminerà tutti gli aspetti del problema consultandosi con medici, bioeticisti, familiari e anche terrà conto delle volontà del paziente, se esistenti, purché queste non vadano contro la Halakhà.

     

     

    Nell’immagine: la targa a Campo de’ Fiori in ricordo del rogo del Talmud del 1553, con su scritto “I fogli bruciano ma le lettere volano”

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