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    ROMA EBRAICA

    La fine del Lager: il dramma della liberazione dei campi di sterminio nazisti

    Il drammatico periodo della liberazione dei campi di sterminio e di concentramento tra il 1944 e il 1945 è l’oggetto della mostra “La fine del nazismo. La liberazione dei lager”, che sarà visitabile dal 23 gennaio presso la Fondazione Museo della Shoah. Attraverso immagini, filmati d’epoca, documenti e testimonianze dirette, il percorso espositivo esplora la liberazione dei lager nazisti, da Majdanek ad Auschwitz, fino ai campi del Reich, con un focus sulle marce della morte e sui deportati italiani.
    La mostra è stata realizzata con il patrocinio di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Cultura, Regione Lazio, Roma Capitale, Città Metropolitane di Roma Capitale, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità Ebraica di Roma, Associazione Figli della Shoah, CDEC – Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, ANED – Associazione Nazionale Ex-Deportati nei Campi Nazisti. Shalom ha intervistato il curatore, lo storico Marcello Pezzetti.

    Quale messaggio si vuole trasmettere con questa mostra?
    L’apertura dei cancelli di Auschwitz non è stata una vera e propria liberazione, tanto che per indicarla tendo a prediligere l’espressione“la fine del lager”.

    Come descrivono i sopravvissuti questo momento?
    Oltre il 90% di loro, non provò gioia, nessunentusiasmo. C’erano due sorelle, che poi sarebbero andate a vivere in Israele, Elena e Gisella Kugler, erano in una baracca ridotte malissimo, maimprovvisamente una di loro disse: «Guarda, a me sembra che non ci siano più tedeschi. Sembrano russi, sono tantissimi, vedo la Stella Rossa». L’altra la guardò negli occhi ed esclamò: «Senti, lasciamo stare, russi o tedeschi, quello cheimporta è che Auschwitz rimane». Questo è indicativo di quanto non fosse veramente una liberazione. Gli ebrei non avevano più un tessuto familiare, un legame con i i propri cari che li tenesse uniti. Era tutto perduto. Come si può affrontare la liberazione da soli? Il loro interrogativo era: «Sarà rimasto qualcuno di noi?». Ci furono alcuni di loro, come Leone Sabatello, che cercarono i propri parenti per anni, purtroppo nella maggior parte dei casi senza successo.

    Come reagirono invece i soldati di fronte a questa realtà quando liberarono i campi di sterminio?
    I militari, soprattutto quelli sovietici, si accorsero immediatamente della gravità di ciò che avevano davanti, anche se spesso non riuscirono a comprendere fino in fondo quanto accaduto. Non si aspettavano una situazione del genere. Alcuni, soprattutto tra i russi, svilupparono un istinto di vendetta. Ma c’era anche un altro aspetto: alcuni liberatori, disgustati dalla visione che si trovarono davanti, non mostrarono molta empatia con le vittime, ma piuttosto un senso di distacco. Si aspettavano un campo pieno di oppositori politici, mentre ciò che trovarono furono vittime designate per la loro presunta razza, per la maggior parte ebrei. Ciò non toglie il principio che i carnefici rimangono carnefici e i liberatori rimangono liberatori.

    Ci sono delle differenze nel modo in cui uomini e donne raccontano la loro esperienza durante la liberazione?
    Sì, c’è una differenza notevole. Per gli uomini, la situazione era più orientata alla sopravvivenza fisica; le donne, invece, conservavano maggiormente una sensibilità verso il desiderio di avere una famiglia, il bisogno di ricostruire una vita. Gli uomini, in molti casi, avevano perso anche la capacità di piangere per la morte di qualcuno, tanto che alcuni, come alcuni sopravvissuti dell’isola di Rodi, affermarono che ci erano voluti anni per piangere per una persona cara. C’è una sorta di “autocontrollo emotivo” che gli uomini dovevano riacquistare dopo l’orrore vissuto. Le donne, invece, avevano una volontà di ricominciare attraverso il desiderio di avviare una nuova vita, di dare un senso a quanto subito. Penso ad esempio alla testimonianza di Luciana Nissim, che dopo la deportazione ha avuto come obiettivo fisso quello di avere una figlia, a tal punto che, quando è nata, le ha dato il nome della sua amica scomparsa, Wanda. Anche gli uomini volevano ricostruire la propria vita, ma le donne sembravano aver avuto una maggiore consapevolezza del bisogno di “riprendersi” come persone, proprio attraverso la famiglia. L’esperienza del campo di sterminio li aveva cambiati in modo diverso.

    Come si rapportarono i sopravvissuti italiani alla vita dopo la guerra?
    Gli ebrei italiani sono stati quelli che si sono più conciliati con la vita dopo la guerra. Questo non significa che la loro sofferenza fosse inferiore, ma certamente il contesto che avevano trovato in Italia era diverso. Rispetto agli ebrei dei Paesi dell’Est, gli italiani non hanno subito una devastazione simile. Roma, ad esempio, nel dopoguerra, nonostante i tragici mesi vissuti, è stata anche un rifugio, perché molti ebrei italiani hanno trovato un calore umano, soprattutto nella comunità ebraica più povera, che aveva vissuto nel ghetto. Questo ha permesso di ricominciare. La solidarietà all’interno della comunità ha avuto un ruolo fondamentale e molti sono riusciti a salvarsi proprio grazie alla possibilità di formare una nuova famiglia.

    Molte sopravvissute italiane hanno raccontato che uno dei momenti più brutti della loro esperienza sia stato il ritorno a casa. Perché?
    In alcuni casi anche membri delle loro stesse famiglie le trattavano come se si fossero salvate per aver “accettato” atteggiamenti ambigui da parte dei persecutori. Ma come avrebbero potuto delle donne ebree ridotte in quelle condizioni avere un rapporto con un soldato nazista? Era praticamente impossibile. Molte erano state oggetto di esperimenti, altre ridotte a un’estrema miseria fisica. Eppure, non sempre al ritorno vennero capite. Il ritorno non è stato facile per molti motivi. Uno dei principali è proprio questo: l’incapacità di comprendere cosa avessero vissuto. L’altra grande difficoltà è stata l’assenza di empatia e solidarietà da parte della società. Anche per questo non hanno parlato per più di cinquant’anni.

     

    La mostra “La fine dei lager nazisti”, curata dallo storico Marcello Pezzetti, sarà inaugurata giovedì 23 gennaio alle 18 alla Fondazione Museo della Shoah, presso la Casina dei Vallati di Roma.

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