Un cambio politico importante
L’insediamento di Trump alla presidenza degli Stati Uniti non è stato solo un grande rito di continuità democratica, ma soprattutto una svolta politica di grandissima importanza per tutto il mondo e in particolare per Israele. L’amministrazione precedente aveva un atteggiamento ambiguo nei confronti dello Stato ebraico: ne voleva certamente la sopravvivenza ed è intervenuta in appoggio a Israele nei momenti più critici della guerra, come il primo periodo di shock e confusione o i bombardamenti iraniani; ma per ragioni “umanitarie” e anche di “equilibrio politico” non voleva che Israele ottenesse una vittoria decisiva. Fino all’ultimo si è temuto che Biden ripetesse il tradimento di Obama quando otto anni fa, dopo la sconfitta democratica alle elezioni presidenziali, lasciò passare senza veto una delibera del consiglio di sicurezza dell’Onu assai pericolosa per Israele. Non è accaduto, anche grazie all’accettazione del governo israeliano di un accordo di tregua che sostanzialmente è quello proposto dall’amministrazione Biden otto mesi fa.
Continuerà Trump la politica della prima presidenza?
Ora la palla è passata a Trump, la cui prima presidenza è ricordata come quella che ha aiutato Israele forse meglio di ogni altra, con lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, che fu un’accettazione importantissima del diritto dello Stato ebraico alla sua Capitale, l’altro riconoscimento dell’annessione dell’altopiano del Golan e soprattutto gli “accordi di Abramo” che hanno ampliato molto i rapporti economici e politici fra Israele e gli Stati arabi, reggendo fra l’altro anche allo stress della guerra, anche meglio di quanto non sia accaduto con molti stati occidentali ed europei. Ora è naturale chiederci se questo aiuto andrà avanti e come. Trump ha designato diversi amici di Israele in posizioni chiave dell’amministrazione, ma ha lasciato posto anche a collaboratori legati al mondo arabo, come Steve Witkoff, inviato per il Medio Oriente e uomo chiave della tregua, che ha notoriamente forti legami di lavoro con il Qatar o Massad Boulos per il Libano. Il modo in cui il nuovo presidente prima della nomina ha condotto i negoziati per la tregua a Gaza (e prima ha sostenuto quella in Libano) mostrano che l’aiuto a Israele non è incondizionato e che egli conduce un suo gioco politico nell’interesse degli Usa, per come gli intende lui, imponendo agli alleati di accettarlo e sostenerlo.
I rapporti con Netanyahu
Un segnale in questo senso è stato anche il mancato invito di Trump al primo ministro Netanyahu alla cerimonia del suo insediamento, a differenza di quel che è accaduto con altre personalità di governi di centrodestra, come l’italiana Meloni e l’argentino Milei. Forse ha pesato l’offesa che Trump ha dichiarato con molta rabbia quattro anni fa quando Netanyahu si congratulò rapidamente con Biden per una vittoria elettorale che Trump contestava. Forse è stato un modo per metterlo a posto e segnalargli che deve conquistarsi il benvolere della nuova amministrazione. Netanyahu comunque ha inviato fra i primi un pubblico videomessaggio di congratulazioni al nuovo presidente e fra gli invitati alla cerimonia c’erano esponenti delle comunità ebraiche in Giudea e Samaria e parenti dei rapiti, che hanno anche avuto l’occasione preziosa di un breve incontro con Trump in questa densissima giornata. Si sa che sono in corso trattative per un incontro fra Trump e Netanyahu a breve termine.
Segnali politici non chiari
Per quanto riguarda la politica americana sulla guerra, vi sono stati dei segnali abbastanza confusi. Si è letto che il presidente stava prendendo in considerazione l’ipotesi di far emigrare parte della popolazione in un paese terzo, forse addirittura l’Indonesia, durante il periodo di ricostruzione della Striscia. Il presidente ha anche dichiarato che Hamas non potrà partecipare all’amministrazione di Gaza dopo la fine della guerra, probabilmente neanche in associazione con l’Autorità Palestinese. Netanyahu ha affermato di aver avuto da Trump assicurazioni verbali di poter riprendere la guerra alla fine della prima fase dell’accordo se i negoziati fallissero e Hamas si riorganizzasse politicamente e militarmente, ma il presidente americano parla come se il conflitto fosse finito e se farlo ripartire fosse un insulto per lui. Trump ha anche dichiarato di voler sostenere ed estendere all’Arabia Saudita gli accordi di Abramo, ma non ha inserito nella sua nuova amministrazione chi li aveva sostenuti e negoziati come il genero Jared Kushner. È difficile leggere una politica chiara in queste dichiarazioni; del resto si sa che Trump fa della sua imprevedibilità una tattica diplomatica costante. Una risposta si potrà avere solo a fine febbraio, quando scadrà la prima fase della tregua. Sull’Iran, che è il tema più importante per il futuro Medio Oriente, la politica della nuova amministrazione non si è ancora chiarita
I primi decreti
Per il momento vale la pena di considerare altri segnali che vengono dalla raffica di provvedimenti presidenziali che Trump ha adottato immediatamente dopo l’insediamento. Uno di questi riguarda gli abitanti degli insediamenti in Giudea e Samaria, che erano stati oggetto di sanzioni da parte di Biden: Trump le ha subito cancellate. Un altro riguarda l’UNRWA, per cui Trump ha ordinato la cancellazione di tutti i finanziamenti, nell’ambito di una revisione di tutti gli impegni di spesa internazionale degli Usa. C’è stato anche l’ordine di consegnare a Israele le armi che l’amministrazione Biden tratteneva come arma di ricatto per Israele. Tutti segnali positivi, che mostrano la disponibilità più volte dichiarata da Trump di permettere a Israele di difendersi con tutta la forza necessaria.