I primi effetti della vittoria d’Israele
I media non ne parlano, perché essendo quasi tutti anti-israeliani preferiscono orientare le loro cronache sul piano “umanitario” (in sostanza sulla propaganda di Hamas) invece che su quello politico-strategico, ma dopo un anno e tre mesi di guerra, non voluta e non prevista da Israele ma sostenuta con grande coraggio dai militari e con fermezza e lucidità dal vertice politico, si iniziano a vedere i segnali di un nuovo Medio Oriente. Israele non ha combattuto per restaurare la situazione precedente al 7 ottobre, come volevano i suoi critici occidentali, perché quella situazione, con bande terroriste armate fino ai denti ai confini dello Stato ebraico e l’avanzata imperialista dell’Iran, era appunto la premessa dell’attacco terrorista. E neppure si è mosso solo per restaurare la “deterrenza” (parola magica dei generali che non avevano previsto la possibilità dell’attacco). Perché i fanatici islamisti che dicono di aspirare al suicidio (e molti davvero lo desiderano) non si fanno “deterrere” o impaurire dalla capacità del loro nemico di far loro gravi danni. Né ha sacrificato centinaia di eroici soldati per “vendetta” come insinuano alcuni antisemiti anche illustri. Israele si è battuto e continua a battersi per realizzare sul campo un Medio Oriente in cui non ci siano più le condizioni di un 7 ottobre. Questo è il significato di quella “vittoria totale” che Netanyahu non si è stancato di proclamare come obiettivo, anche a costo di attirarsi contro grandi offensive giudiziarie e politiche.
Gaza
Ora questo scenario si incomincia a vedere, anche se nella strategia della “guerra asimmetrica” praticata dai terroristi vi è la regola di non arrendersi mai, di non ammettere mai la sconfitta, anche se sul campo essa è evidente. A Gaza c’è ancora del lavoro da fare, ma l’arrivo di Trump al potere certamente lo renderà più facile eliminando i bastoni fra le ruote dell’azione militare che Biden e i suoi non si stancavano di mettere. Bisognerà stanare ancora alcune migliaia di terroristi, eliminare le armi che restano loro, non poche purtroppo, e rompere la presa che ancora i terroristi hanno sulla vita collettiva della Striscia, sostituendola con un’altra amministrazione, che per il momento non si sa quale possa essere. Bisognerà soprattutto costringerli a liberare i rapiti e a consegnare le salme di coloro che hanno assassinato. Su questo tema ci sono trattative e si susseguono gli annunci, che spesso sono solo propaganda. È chiaro che più i terroristi saranno sotto pressione, senza prospettive militari e politiche, più facile sarà obbligarli a rinunciare al loro bottino umano in cambio della loro sopravvivenza (fisica, non politica).
Lo Yemen
Un altro compito ancora aperto è l’eliminazione della minaccia degli Houti, troppo lontani perché Israele possa intervenire sul terreno. Ma l’ultima operazione condotta assieme dalle aviazioni israeliana, americana e britannica segna la strada giusta. Anche l’Egitto, che paga un pesante prezzo economico per la pirateria sul Mar Rosso, ha dato segnali di volersi unire a questa guerra e certamente l’Arabia Saudita e gli Emirati hanno conti aperti con gli Houti, che potranno voler far pagare loro soprattutto se la protezione iraniana dei pirati si indebolirà ancora. Anche su questo teatro si vede che il punto decisivo è il depotenziamento della minaccia iraniana, in particolare la distruzione del suo tentativo di armamento nucleare. Su questo Israele difficilmente può ottenere risultati definitivi da solo; c’è bisogno degli Usa, e cioè che Trump abbandoni l’attendismo e per certi versi la complicità dell’amministrazione Biden con l’Iran.
L’evoluzione del Libano
Il teatro dove la resistenza israeliana ha prodotto risultati più chiari, sia sul piano politico che su quello militare è il nord. Hezbollah è fortemente indebolito, è stato costretto ad accettare un accordo di tregua che gli impedisce ogni presenza a sud del fiume Litani (una decina di chilometri dal confine israeliano). L’esercito israeliano collabora ad attuarlo con quello libanese, cedendogli territorio via via che lo vede attivarsi per eliminare le installazioni terroristiche. In questo quadro non è quasi più visibile la forza multinazionale dell’Onu che agiva come copertura di Hezbollah. Nei giorni scorsi è stato eletto presidente del paese proprio il capo dell’esercito che sta collaborando con Israele e bloccando l’arrivo dalla Siria delle truppe in ritirata. La sua prima dichiarazione è stata rivendicare il monopolio statale delle armi, cioè proporsi il disarmo dei terroristi. Non bisogna pensare che sia un amico, semplicemente ha capito – lui e in genere il vertice politico del Paese – che al Libano non conviene scontrarsi con Israele e continuare ad essere uno strumento di Hezbollah, cioè dell’Iran.
Il nuovo regime siriano
In Siria il cambiamento è più radicale ancora. Spodestato l’ultimo erede di una politica da sempre anti-israeliana e filoterrorista, è venuto al potere un personaggio che ha un passato da integralista islamico, i cui sottoposti compiono azioni anticattoliche e anti-alawite decisamente orribili, e che dunque non ama certamente lo Stato ebraico. Ma che ha capito di non potervisi opporre né con le armi né politicamente. Non solo ha fatto dichiarazioni di non ostilità, ma non ha tentato di impedire che l’esercito israeliano distruggesse (e continui a distruggere) tutto ciò che di pericoloso restava negli arsenali, nei laboratori, nei porti e negli aeroporti siriani e non ha neppure cercato di opporsi all’occupazione – provvisoria a quel che ha dichiarato Israele – di una fetta piccola per estensione ma assai strategica per collocazione del Paese: il monte più alto della regione, al punto di incontro fra Libano, Siria e Israele, e poi diverse località dove avevano basi Hezbollah e i russi, oltre all’esercito siriano. Ora Israele è installato a cinquanta chilometri da Damasco, senza ostacoli naturali che possano difenderla, ha visibilità radar su un territorio molto vasto che era la base dell’attività terroristica, ha ricevuto domande di protezione dalla minoranza drusa sul Golan, che era sempre rimasta fedele ad Assad. Per il momento la situazione sembra stabile. Ma se le cose dovessero cambiare, soprattutto rispetto al tentativo della Turchia (protettrice del gruppo al potere in Siria) di eliminare i curdi, ci sono già piani per cercare di imporre una “cantonalizzazione” della Siria. Bisogna aggiungere che Israele non vuole impadronirsi di terre siriane, sa bene per esperienza quanto oneroso e difficile sia il governo di una popolazione ostile. L’obiettivo non è imperialista ma nazionale: creare le condizioni materiali per cui sia molto difficile infrangere la pace e per cui gli abitanti della Galilea possano tornare a casa senza dover temere attacchi terroristici.