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    Cultura

    La persecuzione fascista dei giornalisti ebrei: i nuovi studi nel libro Antisemitismo di carta curato da Enrico Serventi Longhi

    La prima cosa che colpisce nel volume curato da Enrico Serventi Longhi Antisemitismo di carta. La stampa italiana e la persecuzione fascista dei giornalisti ebrei (Carocci ed., Roma 2024) è la completezza dell’indagine. Articolato in numerosi saggi, divisi in una prima parte generale sull’atteggiamento fascista nei confronti della stampa (saggi di Mario Forno e Mario Cusac), una seconda dedicata a diversi ambiti territoriali e una terza, dove si trattano i temi e “casi particolari”, il volume è introdotto da una densa prefazione dello stesso Serventi Longhi sui «vuoti di memoria» che hanno caratterizzato il dopoguerra.
    Quanto fosse centrale per il regime il pieno controllo della stampa, lo illustrano molto bene i primi due saggi, che fanno emergere le due facce dell’adozione di una forma di tutela della professione (l’albo) che fu allo stesso tempo una forma di controllo della categoria, e dell’epurazione dei giornalisti antifascisti, cui seguì precocemente un censimento dell’agosto 1938 dei giornalisti ebrei. Colpisce la simmetria cronologica con altre iniziative cruciali per l’avvio della persecuzione, il censimento nelle scuole e i provvedimenti contro gli ebrei stranieri.
    Nei confronti dei giornalisti ebrei il governo fascista esercitò, tuttavia, una certa cautela, forse perché i superstiti dell’epurazione politica erano abbastanza allineati ideologicamente o, più probabilmente, perché la categoria era formata da persone in qualche modo note e comunque dotate di relazioni forti anche nel mondo politico fascista, come appare dai saggi della seconda parte, in cui Serventi Longhi tratta del caso romano, Ciro Dovizio di Milano e della Lombardia, Matteo Perissinotto del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, Daniele Trematore del Piemonte, Andrea Masseroni della Liguria e della Toscana. Non deve stupire il fatto che non siano rappresentate le aree del Meridione della penisola, perché, di fatto, lì la presenza di giornalisti ebrei era pressoché nulla.
    Emergono numerosi casi di giornalisti che di ebreo non hanno «che il nome», come dice di sé Ugo Sacerdote, giornalista toscano, fervente fascista, in una lettera di protesta indirizzata all’allora direttore de «Il Popolo d’Italia», Vito Mussolini. Un atteggiamento inizialmente comune a molti ebrei fedeli al fascismo, destinato purtroppo a rivelarsi inutile. Non sempre fu così per i giornalisti, i quali in gran numero fecero domanda di discriminazione, ossia di parziale esenzione dai provvedimenti razzisti. E, in questi casi, la natura opaca degli organi di regime deputati a giudicare sull’appartenenza o meno alla “razza ebraica” appare in tutta la sua evidenza. Le apposite commissioni istituite presso la Direzione generale demografia e razza ebbero un atteggiamento a dir poco incoerente rispetto alle diverse situazioni. Non vennero discriminate, come sarebbe stato possibile a termini di legge, persone che erano state battezzate alla nascita e non erano in alcun modo legate alle Comunità israelitiche, vennero in qualche occasione discriminate persone che avevano solo un recente battesimo. Il principio della assoluta arbitrarietà balza agli occhi: alcuni giornalisti godettero di benevolenza in virtù delle loro relazioni, altri inspiegabilmente no. Alla stenodattilografa Ines Morelli non bastarono i meriti del defunto marito “ariano” e fascista, quelli militari di un fratello, il parere benevolo del prefetto di Genova e l’avere i due figli «di nessuna religione» avviato un percorso verso il battesimo. Ines Morelli non fu discriminata e perse il lavoro con cui, rimasta vedova, riusciva faticosamente a sostentare sé stessa e i figli, riducendosi, con la famiglia, in una situazione di estrema indigenza.
    Del resto, della arbitrarietà (e corruzione) di cui dava prova l’amministrazione fascista nell’applicare la normativa ha dato conto Piero Calamandrei nel suo diario e alcuni casi celebri, anche al di fuori del mondo giornalistico (come quello di Oscar Morpurgo) stanno a dimostrarlo. Come pure, nel mondo della stampa, il caso di Alberto Moravia che fu discriminato (con relativo abbandono del cognome Pincherle) anche in virtù di solide parentele materne. Questo “occhio di riguardo” (si fa per dire) nei confronti della categoria, non salvò alcuni di loro dalla deportazione Ce li ricorda nella sua postfazione Giorgio Fabre, che dedica una approfondita analisi all’atteggiamento di Mussolini verso i giornalisti ebrei; si tratta di Arturo Foà, Pia Rimini, Ferruccio Ascoli, Edoardo Ricchetti, Achille Samuel Curiel, due viennesi, Margarethe Weissenstein e Franz Edelschein.
    Nella terza parte del volume si analizzano «temi, contesti e casi particolari», come recita il titolo della sezione. Ilaria Pavan e Matteo Perissinotto trattano il caso, allo stesso tempo speciale ed esemplare, della causa che, successivamente alla Liberazione, oppose a Trieste gli eredi dell’antico proprietario de «Il Piccolo», il senatore Teodoro Mayer (da tempo lontano dall’ebraismo) e Rino Alessi, colui che lo aveva acquistato dopo che le leggi fasciste avevano depredato gli ebrei delle proprietà. La vendita, ad opera dello stesso Mayer, era formalmente ineccepibile, ma il suo carattere forzato era evidente agli occhi di chiunque. Tuttavia, i vari gradi di giudizio non si conclusero a favore dei Mayer che, però, ottennero una transazione extra-giudiziale nel 1953. Si tratta di un evento pienamente inserito nel tema della mancata giustizia riparatoria nei confronti delle vittime delle persecuzioni nella Repubblica, una situazione a sua volta molto condizionata dal fallimento dell’epurazione e dalla persistente continuità nelle amministrazioni. Colpiscono i nomi dei legali che rappresentarono le parti in causa: Piero Calamandrei per i Mayer e Francesco Carnelutti, difensore anche di Rodolfo Graziani e Julius Evola. Il saggio dedica ampio spazio anche al clima antisemita che circondò Mayer ne 1938 e alle circostanze, quanto meno intimidatorie, della vendita.
    Un affondo sulla situazione de «Il Corriere della sera» è trattato da Emanuele Edallo, con una interessante ricostruzione del processo di fascistizzazione del quotidiano e l’analisi degli articoli contro il sionismo e a favore delle manifestazioni dei palestinesi nel corso dell’estate del 1938.
    Annalisa Capristo ricostruisce le vicende di un giornalista ebreo polacco, Jacob David Kleinlerer, corrispondente a Roma nel 1938 della «Jewish Telegraphic Agency» e del «Jewish Daily Bulletin». Sposato con un’ebrea romana e ben inserito negli ambienti fascisti, tanto che compare in una foto con Italo Balbo e Mussolini pubblicata su «Israel» nel 1937, viene espulso nel 1938. Kleinlerer continuerà a lungo, rifugiato negli Stati Uniti, a credere che l’alleanza con la Germania fosse determinante nelle scelte antisemite del fascismo, una interpretazione che la storiografia degli ultimi decenni ha decisamente ridimensionato.
    Particolarmente interessante è, infine, l’analisi che Stephanie Lanfranchi e Martina Piperno dedicano agli autori ebrei di saggi di critica letteraria pubblicati nei giornali e che furono anch’essi colpiti, a ulteriore riprova della pervasività della persecuzione. Le autrici analizzano, tra l’altro, anche gli elementi della propaganda antisemita, con l’uso diffamatorio dei termini «ebreo» ed «ebreizzato», con la stroncatura critica dei romanzi ascritti alla “letteratura ebraica”, con l’uso di un lessico che fa riferimento alla corruzione e alla manipolazione. Fra le prime vittime di questa propaganda, fu naturalmente, il romanzo Gli indifferenti di Moravia. Infine, la stessa letteratura italiana fu utilizzata strumentalmente in chiave antisemita, a cominciare da Dante (come è noto, un suo verso era posto in epigrafe alla rivista «La difesa della razza») ma anche Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Alberti, Campanella e, soprattutto, Leopardi furono oggetto di una “appropriazione indebita” per essere usati come strumenti della propaganda antisemita.
    In sintesi, un libro importante, che ci conferma la necessità di studiare ancora e approfondire la ricerca in ogni settore a proposito delle leggi razziste del fascismo e della loro applicazione. Non a caso la lista degli archivi, pubblici e privati, consultati dagli autori per la loro capillare ricostruzione è lunghissima.

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