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    EUROPA

    La storia e le storie degli ebrei dei Paesi arabi

    “Noi ebrei sono cinquemila anni che pensiamo e ci negano ancora il diritto di esistere. Oggi, anche se mi fa orrore sono costretto a dire ‘mi difendo, dunque sono’”.
    Questa frase di Herbert Pagani (scappato dalla Libia nel 1952 per le violenze antiebraiche dilaganti nel Paese), posta a conclusione del testo scritto nel 1975 in risposta alla mozione dell’ONU che equiparava il sionismo al razzismo, racchiude il significato dell’incontro tenutosi la mattina di lunedì 25 in occasione del Convengo per la Giornata nazionale di Commemorazione dei rifugiati ebrei dai Paesi arabi.
    L’iniziativa, promossa dal Senatore Giulio Terzi, ha visto la partecipazione di numerose personalità di rilievo in prima linea nella divulgazione di una storia, quella dell’Esodo Silenzioso, che sembra appartenere ad un’altra dimensione. Una dimensione apparentemente lontana e marginale ma oltremodo centrale nel capire quali siano state le regole che hanno stabilito i rapporti tra popolazione ebraica residente, al tempo, in Medio Oriente, e gli Stati della regione. Oggi di quel quasi milione di persone (Iran escluso), ne sono rimasti poco più di tremila; tutti gli altri hanno intrapreso la via dell’esilio forzato, obbligato dalle violenze, sancendo la fine dell’ebraismo mediorientale.
    Il convegno, moderato da Matteo Angioli, si è aperto con l’intervento del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata il quale ha ricordato come “nel 2014, la Knesset ha adottato una legge che designa il 30 novembre come giornata nazionale di commemorazione degli 830mila rifugiati ebrei dai Paesi arabi”. La banalizzazione di questa vicenda non rende giustizia all’apporto culturale, religioso, storico e non solo che queste comunità hanno contribuito a far accrescere nei Paesi dove un tempo erano fiorenti. Il Senatore si è interrogato sui motivi per i quali agli ebrei originari dei Paesi arabi sia interdetto il diritto al ritorno. Inoltre la cancellazione della storia, “la riscrittura” degli atti delle Nazioni Unite, ha fatto ricadere il mondo nel vortice dell’antisemitismo. Oggi, quegli stessi ebrei che scappavano dai Paesi arabi e che venivano accolti in Europa “adesso stanno fuggendo dalla Francia, dalla culla del diritto”. L’allarme che il senatore mette in risalto è la situazione nella quale versa la situazione degli ebrei in Occidente; inoltre, le accuse verso Israele, con il recente mandato di cattura emanato dalla Corte Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant, contribuiscono a incrementare le difficoltà delle comunità ebraiche nel mondo, con la loro stigmatizzazione ed esclusione.
    Il neo Ambasciatore Israeliano in Italia, Jonathan Peled, ha ricordato come l’identità ebraica, sia l’unico motivo delle violenze subite dagli ebrei originari dei Paesi arabi. Eppure il numero di sfollati, apolidi o rifugiati ebrei dai paesi arabi è superiore a quello dei siriani vittima dell’ultimo decennio di guerra. Israele e paesi come l’Italia hanno accolto questi ebrei espulsi dai Paesi arabi sancendo come la forza della vita sia più forte. Peled si è poi soffermato su come oggi in Israele ci siano centomila sfollati interni. Ha poi ricordato come l’attuale conflitto sia “una guerra asimmetrica tra uno Stato sovrano e un’organizzazione terroristica spietata che non rispetta nessuno dei nostri valori, usando la propria popolazione come di scudo umano […] Oggi dobbiamo porre fine alla guerra per il bene di Israele, riportare a casa gli ostaggi impegnandoci nella pace”.

    Ever Arbib, già Consigliere della comunità ebraica di Roma, ha raccontato, in accordo con David Gerbi, la storia degli ebrei libici, in particolare del padre Roberto, che parte da ben prima del 1911, anno di inizio dell’occupazione italiana della Libia. Roberto Arbib, in un primo momento obbligato a tesserarsi al partito fascista, dopo l’emanazione delle leggi razziali perse il lavoro e fu obbligato a restituire la tessera del partito. La sua famiglia iniziò ad essere presa di mira da italiani e arabi tanto che ai bambini veniva urlato “voi ebrei ci avere maledetti nel vostro cuore”. La crescente violenza che iniziò a permeare la vita degli ebrei libici esplose il 4 novembre 1945 quando, dopo la partita di calcio amichevole tra Maccabi ed una squadra locale, si scatenò un pogrom che durò tre giorni, nella totale indifferenza delle truppe britanniche di stanza in Libia. Il bilancio fu catastrofico, con migliaia di feriti e 133 ebrei assassinati, tra i quali alcuni parenti di Arbib. Un secondo grande pogrom si scatenò nel maggio del 1948, a seguito della nascita dello Stato di Israele. La popolazione ebraica era più preparata. Gli assalitori vennero respinti, ma la spaccatura tra le componenti sociali era sancita. Gli ebrei libici vennero cacciati, rimanendo solo in 5mila. Il racconto della storia della famiglia Arbib è la prova che l’unica arma sia quella della memoria. “Stiamo soffrendo molto” afferma Arbib, ma è necessario non dimenticare che la lotta all’antisemitismo richiede un impegno collettivo perché “capire è impossibile ma conoscere è necessario” conclude citando Primo Levi ne I sommersi e i salvati.
    L’intervento di David Gerbi, psicanalista junghiano e tra i promotori dell’iniziativa, riprendendo la narrazione avviata da Ever Arbib, ha prima narrato le vicende della famiglia dal 1967 per poi concentrarsi sul suo viaggio personale nel tentativo di ridare valore e significato al “ritorno a casa”. Gerbi ha dedicato l’intervento a quattro persone: Bekusha, la governante che salvò lui e la sua famiglia dal pogrom del 1967; Nadir che salvò la Sinagoga di Dar Bishi a costo della sua vita; Delia ed Essam Abugaghis, moglie e marito, entrambi di Bengasi, i quali salvarono David Gerbi dall’ospedale della città e che furono fatti sparire e dei quali non si sono mai più avute notizie. “La giustizia porterà alla pace” (Isaia 37,12) è l’incipit del discorso e delle azioni concrete intraprese e messe in pratica da Gerbi: la ricerca per la giustizia negata agli ebrei nordafricani costretti ad abbandonare tutto., vittime di violenze e pogrom ancora poco noti. Stessa sorte, ricorda lo psicanalista, toccò agli ebrei di Persia protagonisti di “una seconda grande ondata migratoria forzata che avvenne tra il 1979 e il 1980 in Iran, con circa 70mila ebrei costretti a cercare rifugio in altri Paesi”. Gerbi si è concentrato successivamente sul ricordo degli ultimi giorni a Tripoli, prima di potervi ritornare solo 35 anni dopo. Il caos dovuto ai pogrom, la sofferenza nel sentire gradita dalla folla urla come “ebdah el-jahud”, sgozza l’ebreo, il fumo dei palazzi in fiamme. La storia di Gerbi, di Arbib e di tanti altri ebrei libici è però ancheuna storia di rivalsa, la storia di chi non si è arreso ed una volta venuto in Italia si è rimboccato le maniche, “profughi silenziosi” che hanno investito ogni energia per “ricostruire le proprie vite”. L’intervento di Gerbi si è poi concentrato sulla sua vita da attivista per la pace, per far riottenere i diritti agli ebrei libici di poter visitare sinagoghe e cimiteri, nel frattempo defraudati, chiusi o rasi al suolo. L’attivismo all’interno della comunità Amazigh e le pubblicazioni per la pace in una tortuosa epopea tra Italia, Libia, USA ed Israele. La stessa amarezza che lo colpì nel 1967, si è ripresentata dopo il 7 ottobre 2023, quando ha “sentito di nuovo la folla urlare nelle piazze, ma questa volta a Roma e Milano, “ebdah el-jahud”, sgozza l’ebreo, sgozza l’ebreo”. La speranza per una giustizia vera e l’obiettivo di costruire ponti di pace non si sono mai spenti nella coscienza di Gerbi, che in conclusione ha affermato che “il cammino verso la pace è lungo e complesso ma non impossibile. Con la volontà e il coraggio di crederci possiamo fare la differenza”.
    Hanno preso parte al convegno anche Claudio Pagliara, corrispondente Rai degli Stati Uniti; Antonio Stango, Presidente della Federazione Italiana Diritti Umani; Elisabetta Zamparutti, Tesoriere di Nessuno Tocchi Caino.
    Esistono vari modi di difendersi dunque esserci, quello che hanno scelto nella giornata di lunedì Ever Arbib e David Gerbi è quella del racconto e della parola, non della violenza, perché “non c’è agonia più grande che portare dentro di sé una storia dolorosa non raccontata”.

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