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    ROMA EBRAICA

    Sorrisi, lacrime, emozioni: una vita tra gli alunni

    Dai sei anni di età, non ho praticamente mai smesso di frequentare la scuola ebraica. Ho iniziato con un anno di tirocinio nella quinta elementare della Morà Elisa Alatri Ascarelli z.l., una figura esperta che mi ha insegnato molto. La prima supplenza capitò proprio quell’anno, quando ero ancora diciottenne: una quarta elementare con alunni molto vivaci. In quel periodo erano in voga i film di Bruce Lee, con scene di combattimenti di Kung fu con l’utilizzo di catene con maniglie. Un paio di questi alunni venivano a scuola con simili attrezzi con cui scimmiottavano i protagonisti di questi film: che fatica tenerli a bada! Tornavo a casa distrutta e piangente, tanto che i miei genitori mi consigliarono di mollare. Chiesi un consiglio alla mia vecchia morà, Mirella Di Porto Del Monte z.l., la quale mi suggerì di impegnare i più vivaci nell’addobbo della classe per Purim: visto il loro dinamismo, bastarono meno di due ore…e dovetti inventarmi qualche altra attività per tenerli a bada.
    Dopo qualche anno, nel settembre del 1980, mi fu affidata la mia prima classe da titolare, una prima elementare. Vi era anche un alunno statunitense, D.L. Era il più piccolo, ancora non aveva compiuto sei anni ma era molto stimolato dalla famiglia a livello culturale. Questo bimbo portava per colazione un panino con burro di arachidi e aringa affumicata, mentre gli altri mangiavano pizza e cioccolatina: una merenda desiderata anche da D. Una mattina, durante la ricreazione un alunno venne da me piangente dicendomi: «Morà! D. si è mangiato la mia cioccolata!». Mi rivolsi a D. chiedendogli spiegazioni: «Perché hai mangiato la cioccolata del tuo amico?». «Morà l’ho trovata in terra e sul Talmud c’è scritto che se trovi qualcosa e non sai chi è il proprietario la puoi prendere!». «Sì, però prima avresti dovuto cercare il proprietario e mi sembra tu non lo abbia fatto!».
    Ho incontrato di nuovo questo mio alunno tanti anni dopo, da Direttrice. Questo papà, che non avevo riconosciuto, era un diplomatico israeliano e doveva iscrivere sua figlia. Nel fare lo spelling delle generalità gli dissi: «So come si scrive, ho avuto un alunno con lo stesso cognome!». E lui rispose: «Ma sono io Morà!». Fu una grande emozione rivederlo e apprendere il suo percorso professionale. Sono così diventata per due anni anche la morà di matematica di sua figlia.
    L’ultimo aneddoto ci fa capire la sensibilità dei bambini e quanto con la loro empatia e il loro affetto possano aiutare gli insegnanti a superare momenti di dolore. A maggio 1993, venne improvvisamente a mancare mia madre. Quando tornai in classe, ero molto triste ma cercavo di non far trapelare il mio stato d’animo, ma non curavo molto il mio aspetto esteriore. Un giorno F.D.P. si avvicinò alla cattedra molto discretamente e mi chiese: «Morà stai male?». «No, sto bene». E lui: «Allora Morà truccati che così non ti vogliamo vedere». Mi fece capire che per i miei alunni vedermi così triste era una sofferenza: tornai in classe con un altro aspetto poiché avevo realizzato che dovevo reagire anche per la loro serenità.
    Questi tre episodi fanno capire quanto possa essere stimolante stare a contatto con i bambini, che ci fanno sorridere, ci confortano, ci stimolano, grazie alla loro spontaneità e sincerità. La professione dell’insegnante è sicuramente coinvolgente ed arricchente!

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