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Ultimo numero Settembre – Ottobre 2024

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    ISRAELE

    Dolore, solidarietà, speranza

    Le voci degli Italkim dopo un anno di guerra

    SCIALOM ZARRUGH
    Scialom Zarrugh è il titolare di Pankina, uno dei ristoranti italiani più in voga nell’eclettico panorama culinario di Tel Aviv. In seguito alla strage del 7 ottobre, Scialom ha deciso di impegnare la sua cucina alla preparazione di mille pasti al giorno per i militari al fronte e per gli sfollati. “Dopo un paio di giorni di impotenza, chiuso in casa senza la possibilità di arruolarmi, ho capito cosa potevo fare per aiutare”, racconta. “Così, con il mio socio Alberto Moscati, abbiamo deciso di aprire le porte del ristorante ai volontari: decine e decine di volontari che ogni mattina si presentavano puntuali per aiutarci a preparare i pasti. Era commovente. Alle otto in punto, prima ancora di cominciare le preparazioni, il ristorante era già gremito di persone desiderose di collaborare e di aiutare. Ognuno a modo suo. In un periodo così difficile, vedere tutti uniti mi ha dato tanta forza”. A quasi un anno dal 7 ottobre, Shalom racconta di non essere tornato ancora alla routine. “Abbiamo riaperto il ristorante, ma ci sono ancora tanti lavoratori arruolati e la mancanza dei turisti si sente”, spiega. “L’atmosfera di festa che tanto caratterizza Tel Aviv, non c’è più. Il pensiero costante va ai soldati al fronte e agli ostaggi che ancora non sono tornati a casa, ma l’unità di Am Israel c’è. Eccome. Quando vedo il nostro popolo stretto l’uno all’altro, mi si apre davvero il cuore”.

    ANGELA POLACCO LAZAR
    “La vita è cambiata dopo il 7 ottobre, non ci siamo ancora ripresi dallo shock. Il senso di sicurezza che avevamo prima è svanito” confessa Angela Polacco Lazar, guida turistica per mestiere e per vocazione, da molti anni ormai un punto di riferimento per giornalisti, troupe televisive, politici e operatori culturali italiani in Israele. “Oltre alla paura collettiva, vi è quella individuale. La mia paura di mamma. Ecco, mio figlio è riservista in un’unità di combattenti e dal 7 ottobre ad oggi non ho più conosciuto la tranquillità. Non c’è stata una notte di vero riposo”. Forse più di qualunque altro israeliano, in questi mesi Angela ha visto Israele cambiare drasticamente davanti ai suoi occhi. Abituata ad accompagnare gruppi di turisti entusiasti nei luoghi più magici che lo Stato ebraico abbia da offrire, infatti, la guida mitologica ha visto piano piano il suo Paese spegnersi e svuotarsi. “Da quando ho fatto l’Aliyah, lavoro come guida. Sono operativa sul campo dal 1987. Ho conosciuto così migliaia di persone e, con mia grande sorpresa, tantissimi di loro mi hanno mandato e mi mandano tutt’ora dei messaggi bellissimi di solidarietà e di sostegno. Io rispondo raccontando le altre notizie, quelle che magari non compaiono sui giornali. La realtà vista da dentro, ovvero dal mio punto di vista”. Ecco, la speranza si riaccende. “L’idea che ci siamo fatti che tutto il mondo sia contro Israele, non è esatta. C’è tanta gente silente e non aggressiva che la pensa diversamente”, afferma Angela e aggiunge con forza:”No, non siamo soli”.

    VITO ANAV
    La storia di Vito Anav, presidente della comunità ebraica italiana in Israele, è davvero singolare. Se tutti gli israeliani hanno dovuto affrontare le conseguenze dell’indicibile attacco di Hamas da un punto di vista umano e personale, infatti, Vito ha dovuto affrontare il dramma anche da un punto di vista istituzionale. Come reagisce il vertice di una comunità importante come quella degli Italkim ad una catastrofe sociale come quella del 7 ottobre? “Il ruolo personale si mischia a quello pubblico e quello pubblico si mischia a quello personale. Siamo esseri umani” spiega Vito. “Abbiamo cercato, per quanto possibile, di tenere in piedi tutte le nostre attività mantenendo la quotidianità, perché questo è il nostro dovere. Inoltre, abbiamo coordinato i gruppi di volontari arrivati dall’Italia, portando aiuto agli agricoltori delle zone colpite. Partivamo da Gerusalemme alle cinque del mattino, direzione sud, per raccogliere i pomodori nei terreni abbandonati”. Le iniziative sono state tante e tutte importanti, ma Vito ricorda con emozione un momento particolarmente significativo. “Con dei volontari della comunità abbiamo raccolto dei fondi, comprato decine di chili di carne e siamo andati in una base militare per fare un barbecue ai nostri soldati nelle loro poche ore di riposo tra una missione e l’altra. È stato davvero un incontro molto forte”.

    HADASSAH CHEN
    Hadassah Chen è un’apprezzata giornalista del Jerusalem Post. “Una giornalista molto ingenua, tendo a vedere tutto rosa” ci tiene a precisare lei. “Il 7 ottobre mi ha reso molto più realista. Israele è sempre stato messo in discussione, ma dopo la strage ho capito che siamo davvero soli. Che abbiamo l’un l’altro, e Dio. Sì, ho sempre saputo che Dio è con noi, ma adesso vedo la sua presenza ovunque. In ogni singola cosa, anche la più stupida. Il 7 ottobre mi ha aperto gli occhi in un modo drastico e oggi credo siamo un Paese davvero miracolato: ogni giorno che sopravviviamo alle continue minacce che arrivano da ogni fronte, è un autentico miracolo”. Il giorno della tragedia che ha cambiato per sempre le sorti di Israele, Hadassah era in vacanza in Italia insieme alla sua famiglia. “Mio marito è stato chiamato come riservista ed è immediatamente tornato in Israele”, racconta commossa. “È stato un saluto drammatico. Si è separato da me e dai bambini senza sapere quando ci saremmo rivisti. Noi siamo rimasti bloccati a Milano per tre mesi lunghissimi e difficilissimi. Mi mancava casa, mi mancava la mia Gerusalemme. Dove ho trovato la forza di andare avanti? Me l’hanno data i miei figli. Mi hanno insegnato loro cosa significhi adattarsi, cosa significhi essere positivi. Sono stati bravissimi. Mi sono stati da modello”. Nell’ultimo anno Hadassah ha dedicato il suo lavoro per raccontare le storie degli eroi di questa difficile guerra. Ha raccontato le storie degli ostaggi, scritto di coloro che si sono sacrificati per mettere in salvo quante più persone nei Kibbutzim il giorno della strage, ha intervistato i famigliari dei soldati caduti in guerra, per tenere vivo il loro ricordo. “Un tempo mi interessava il prestigio dell’intervistato. Cercavo dei personaggi che fossero esclusivi, inarrivabili. Oggi, quando scrivo, mi interessa altro. Il mio obiettivo è cambiato. Tutto ciò che desidero è Ahavat Israel: raccontare l’amore all’interno del nostro popolo. Quando siamo uniti, siamo invincibili”.

    DANIEL LANTERNARI
    Daniel Lanternari è un cittadino israeliano del kibbutz Nir Yitzhak, nato e cresciuto in Italia e sopravvissuto alla strage del 7 ottobre. Il suo racconto ha dell’incredibile. “Alle sei e mezza abbiamo sentito la prima sirena suonare. Di solito dura poco, ma questa volta ci siamo subito resi conto che c’era qualcosa di strano. Ovviamente ci siamo nascosti nella stanza blindata e solo verso le nove, quando abbiamo sentito un po’ di silenzio, sono uscito”. L’immagine che si presenta agli occhi di Daniele è a dir poco surreale. “Dieci terroristi erano nel giardino di casa nostra. Non ho nemmeno provato paura, perché non riuscivo proprio a realizzare ciò che stava succedendo. Loro hanno cominciato a sparare e correre verso di noi. Hanno sparato sulla porta, il proiettile è passato, ma fortunatamente non ci ha colpiti. Eravamo convinti fossero le nostre ultime ore. I terroristi sono entrati in casa, hanno distrutto tutto, rubato ciò che potevano. Tutte le ore successive nella camera blindata le abbiamo trascorse in silenzio, immersi nella paura. Abbiamo sentito come prendevano in ostaggio cinque vicini di casa. Solo di sera, quando siamo usciti, abbiamo capito quanto eravamo vicini alla morte”. Daniel conclude con voce sommessa: “Oggi siamo ancora sfollati. La nostra vita è cambiata e non sappiamo cosa accadrà domani, ma il nostro pensiero è rivolto agli ostaggi. Speriamo che tutti loro tornino presto a casa”.

    ANGELICA CALÒ LIVNE
    Angelica non necessita di presentazioni. Insegnante, educatrice, formatrice, regista, scrittrice, fondatrice e direttrice artistica della Fondazione per la pace Beresheet LaShalom. Una donna straordinaria. Un concentrato di energia e di speranza. Luce pura. Abita a Kibbutz Sasa, al confine con il Libano. La sua testimonianza è rara e preziosa, oggi più che mai. “Il 7 ottobre rimarrà per sempre il giorno dell’incredulità, dello sgomento, dello sconforto, di pareti crollate, di santuari sconsacrati e fortezze profanate. Tutto ciò che era vivo, pulsante e pronto a germogliare è stato brutalmente devastato, frantumato in milioni di particelle che cercano disperatamente di ricongiungersi. Una nube pesante di volti grava su di noi:i bruciati, i rapiti, i violentati, le fanciulle in fiore, i soldati padri, i soldati figli, il kibbutz evacuato, le strade vuote e i missili, i droni colmi di esplosivo, gli spari, gli incendi. Il pensiero fisso degli ostaggi. Cosa fanno in questo momento? Li maltrattano? Quelle povere anime innocenti sono già incinte di quei mostri? Dieci mesi sono trascorsi e sembrano dieci ore. Su una piccolissima zattera in mezzo alla tempesta ho cercato in questi mesi di dare un po’ di sollievo ai miei studenti attraverso laboratori che ho creato come illuminata da qualcosa che non ero io, spinta da una forza inesauribile. Lo sforzo di restare chi sono, con i miei valori e le voci di mio padre e mia madre che risuonano nell’animo e mi dicono: Passerà anche questa, c’è Dio benedetto, tu sei qui per aiutare a superare il male. Sì, dobbiamo essere più forti, più creativi e più pazienti di sempre. Dobbiamo sconfiggere il terrorismo, per noi e per tutto l’Occidente. Dobbiamo trovare i moderati, le teste pensanti e gli illuminati dalla ragione per stipulare insieme contratti di pace, programmi di educazione contro l’odio e la ricostruzione del pensiero umano. Questa è l’unica soluzione per il proseguimento della vita su questa terra”.

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