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    ISRAELE

    Ecco chi sono (veramente) i soldati dell’esercito israeliano

    Le voci dei giovani di Tsahal raccolte da Shalom

    YONATAN BARKAT
    Yonatan Barkat ha ventidue anni, è figlio di Alona Barkat (Presidente della squadra di calcio Hapoel Beer Sheva), nipote di Nir Barkat (ex Sindaco di Gerusalemme e attuale Ministro dell’Economia), e incarna alla perfezione la nuova generazioni di soldati dell’IDF. I combattenti 2.0, possiamo definirli: non meno preparati e ideologici dei loro antenati, certamente non meno coraggiosi. Questi nuovi combattenti hanno inoltre la straordinaria capacità di usare la tecnologia a loro favore, integrandola come arma strategica contro la minaccia terroristica. Nello specifico, il giovane e promettente Barkat ha inserito l’utilizzo dei droni all’interno di Gaza. Così, se un tempo il primo soldato a entrare nei tunnel del terrore di Hamas era anche il primo a doversi sacrificare, oggi i droni fungono da pionieri robotici, guidando i battaglioni e annunciando in tempo reale eventuali minacce nemiche. Grazie ai loro sensori e alle loro telecamere avanzate, i droni in questione sono riusciti a salvare decine di vite umane nella guerra ancora in corso. Per anni la gioventù israeliana è stata accusata di non essere all’altezza di quei valorosi nonni che avevano combattuto la guerra del ’48 e del Kippur. Yonatan Barkat è la dimostrazione che si sbagliavano: la nuova gioventù è l’unica garanzia di Israele per un futuro sicuro.

    Yonatan Barkat

    DAVID RIBAYEV
    Questa è la storia del sergente David Ribayev, ventiduenne di Rishon Lezion, fotografo di guerra presto diventato membro del battaglione di ingegneria di combattimento 614. David è entrato a Gaza con lo scopo di documentare le atrocità compiute dai terroristi di Hamas. Dopo circa due mesi di combattimento, il giovane fotografo è andato in missione operativa a Jabaliya, dove si è imbattuto in un gruppo di terroristi che ha sganciato un RPG verso il suo battaglione. David e altri tre soldati sono rimasti gravemente feriti. Uriah Yaakov, invece, è rimasto ucciso. I quattro sono stati evacuati immediatamente all’ospedale Sheeba e, grazie all’intervento del team medico, sono stati messi in salvo. «Mi è stata amputata la gamba destra sotto il ginocchio», ha raccontato David a Shalom. «Ora mi sto riprendendo, sto imparando lentamente a camminare. Mi auguro di cuore che arrivino presto dei giorni migliori». Come David, decine e decine di giovani combattenti israeliani hanno perso arti in combattimento. In occasione del Giorno dell’Indipendenza, un marchio di moda israeliano ha scelto un gruppo di soldati feriti come modelli della nuova collezione estiva. «Preparatevi a vederli in giro, perché sono loro gli israeliani più belli che ci siano», recitava lo slogan. David lo è per davvero.

    David Ribayev

    RAZ RONEN
    Raz Ronen, trent’enne di Kfar Saba, è una valorosa combattente dell’IDF. «Fino al 7 ottobre non esisteva un battaglione operativo di combattenti donne. Il giorno della strage ho cominciato a parlare con alcune amiche riserviste e in poche ore avevo raggruppato cento ragazze pronte a combattere», racconta Raz a Shalom. «Così, abbiamo cominciato ad allenarci. Io, ovviamente, ero a capo del battaglione. Al termine dell’addestramento, l’IDF ci ha mandate al confine con Gaza, lì abbiamo operato per tre mesi». Fa una breve pausa, poi puntualizza: «Non mi piace dormire nel fango, due ore a notte nel migliore dei casi, ma questa è la mia unica casa e sento di doverla difendere. Di doverla proteggere con le mie stesse mani. Per lei, sono disposta a fare qualunque cosa, in qualunque luogo, in qualunque momento, a qualunque condizione fisica e mentale». Fa un’altra pausa, e aggiunge con voce rotta dalla commozione: «Durante quei tre mesi ho scoperto il volto più bello d’Israele. Quello più solidale. Quando siamo uniti, siamo indistruttibili. Io l’ho visto con i miei occhi, l’ho vissuto sulla mia pelle». Oggi Raz gira nelle scuole per raccontare la sua storia e incoraggiare le giovani ragazze a inseguire i loro sogni. «Possiamo fare tutto ciò che vogliamo, nessuno ci può fermare», conclude con un sorriso.

    Raz Ronen

    IDAN AMEDI
    Idan Amedi non necessita di presentazioni: lo conoscono tutti, lo amano tutti. Cantautore dolce e romantico, attore ruvido e virile, Amedi ha conquistato i cuori di milioni di persone sparse nel mondo grazie al suo ruolo centrale in Fauda, la serie tv Made in Israel più amata di sempre. Eppure, nello Stato ebraico, non esistono sconti VIP: nei momenti di difficoltà, tutti si presentano al fronte. Così ha fatto anche Amedi che, dopo lunghi mesi di combattimento, è rimasto gravemente ferito durante un’operazione antiterrorismo dell’IDF a Gaza. L’artista è stato immediatamente trasportato allo Sheba Medical Center di Tel Hashomer, dove è stato messo in salvo. Durante la conferenza stampa realizzata nel giorno del suo rilascio dall’ospedale, Idan ha detto tra le lacrime: «Sono arrivato qui pieno di ustioni. Per una strana ironia della sorte, ero irriconoscibile. Hanno scritto sul mio referto che sono uno sconosciuto di 22 anni. Sono rimasto ferito nel corpo e nell’anima, ma il mio spirito è più forte che mai. Tornerò a creare, a cantare, a recitare e a combattere. Tuttavia, ho fallito come comandante, due dei miei soldati sono caduti in combattimento. La nostalgia che già nutro per loro mi spezza il cuore». Così si esprime un vero combattente, un vero eroe. Possano la sua vulnerabilità e il suo coraggio esserci di esempio.

    Idan Amedi

    HANOCH YUNICK
    Hanoch Yunick ha 38 anni, abita a Brooklyn, ha sei figli (due di loro disabili) ed è un ebreo ultra-ortodosso. Su carta, Hanoch non ha nulla a che vedere con l’IDF. Al contrario, egli incarna forse l’antitesi del soldato israeliano ideale. Troppo vecchio, troppo lontano, troppo impegnato, troppo religioso. Eppure, il 7 ottobre è stato un richiamo anche per Hanoch, che ha deciso di lasciare tutto e arruolarsi come riservista. Il suo motto, d’altronde, è sempre stato: «Non importa dove sei, perché il tuo cuore è in Israele». Così, il riservista d’eccezione ha combattuto per più di cento giorni, dimostrando ancora una volta che, al di là della barba e del cappello, della kippà e dell’abito rigorosamente nero e bianco, siamo tutti uguali. Tutti uniti da un destino comune. Tutti figli della stessa patria. Non a caso lo slogan della guerra è presto diventato “Beyachad nenatzeach”. In italiano, “Insieme vinceremo”. L’unità fa, farà e ha sempre fatto la forza. Hanoch ne è l’inconfutabile prova.

    Hanoch Yunick

    CHEN OFIR
    Chen Ofir ha 29anni, è da poco sposata e, prima del 7 ottobre, si occupava di strategia digitale e di comunicazione. Il giorno della strage, tuttavia, ha deciso di licenziarsi dal suo lavoro per dedicarsi interamente alla guerra contro Hamas. Si è arruolata dunque come riservista e ha terminato il suo servizio solo dopo 240 giorni di lavoro ininterrotto. All’interno dell’esercito israeliano, l’ufficiale Chen ha ricoperto il ruolo di portavoce della Marina. Ha lavorato spalla a spalla con il portavoce ufficiale dell’IDF, Daniel Hagari, 24 ore su 24. Nello specifico, Chen era responsabile della copertura mediatica riguardante l’attività operativa del braccio navale dell’esercito israeliano, che è parte integrante delle forze che combattono sul campo – sotto il mare, sulle navi e anche a terra. «Durante la guerra, ho anche prestato servizio come rappresentante del portavoce dell’IDF durante il ritorno degli ostaggi nell’ambito dell’accordo con Hamas dello scorso novembre», ha raccontato Chen a Shalom. «Ho avuto il privilegio di documentare l’emozionante momento dell’incontro tra gli ostaggi liberati e le loro famiglie, salvaguardando la loro intimità e accertandomi così che i media locali e internazionali rispettassero le regole e i limiti da me imposti». Poi ha aggiunto: «Lasciare il lavoro e la famiglia per arruolarmi è stata per me una scelta assolutamente naturale. D’altronde, non vi è nulla che amo più del mio Paese».

    Chen Ofir

    YUSSEF MUBARAK
    In Israele vivono circa due milioni di arabi musulmani e cristiani, molti dei quali convintamente e orgogliosamente sionisti, che pur appartenendo ad un’altra religione e in un’altra cultura, vedono nella bandiera con la Stella di Davide l’unico simbolo della loro unica patria. Arabi israeliani perfettamente integrati nella società ebraica locale, che godono di ogni diritto di cui gode ogni altro loro concittadino. Uno di loro è Yussef Mubarak, un soldato arabo che ha combattuto a Gaza. Lì è rimasto gravemente ferito e, dopo un lungo ricovero, durato oltre un mese e mezzo, si è svegliato e ha cominciato un lento processo di riabilitazione. La prima frase che ha detto dopo aver ripreso coscienza, è stata: «Voglio tornare a Gaza per combattere con i miei compagni». Sua madre, Shirin, dopo un momento di esitazione, gli ha dato la sua benedizione. «Non importa se sei ebreo o arabo: questa guerra è di tutti. Nonostante le difficoltà, questa è il nostro paese, questa è la nostra realtà, questa è la nostra vita», ha dichiarato fiera.

    Youssef Mubarak

    SHAUL GREENGLICK
    Non posso concludere questo puzzle umano e sociale, senza di lui, il mio amico del cuore: l’eroe d’Israele Shaul Greenglick. Uno dei tanti e troppi soldati che hanno perso la vita dal 7 ottobre a oggi, nella battaglia che vede coinvolta la democrazia d’Israele contro il terrorismo di Hamas. Uno dei tanti, sì, ma unico nel suo genere. Shaul era un amico speciale. Dolce, talentuoso, profondo, esilarante raro e prezioso. Un ragazzo pieno di sogni rimasti incompiuti. Poco prima dell’inizio della guerra, ci siamo incontrati per parlare del suo grande sogno di diventare cantante. Appena tre settimane prima della sua morte, la stella emergente aveva superato con successo l’audizione a The Next Star, il programma televisivo canoro più seguito del Paese. Un’audizione presto diventata virale in rete. Tuttavia, con mia grande sorpresa, appena due settimane prima di cadere in combattimento, Shaul mi aveva telefonato per confidarmi di aver deciso di lasciare il talent show per continuare a combattere a Gaza a fianco dei suoi compagni. «Non posso cantare mentre loro rischiano la vita per il Paese», constatò lui, irremovibile, mentre io protestavo. Era l’occasione della sua vita, quella a cui stava rinunciando. «Non si abbandonano i sogni», gli spiegai scioccamente. «Ora sto realizzando un sogno più antico: difendere il mio Paese», rispose lui, saggio, sereno, senza alcuna retorica. Poi mi mandò un messaggio: «Grazie per non avermi dato ragione, avevo bisogno di sentirti dire che sto sbagliando. Ti voglio bene». L’ultimo messaggio. Non è stata la morte ad aver reso Shaul un eroe. In Israele, i martiri non esistono. In Israele esistono solo le morti ingiuste, che lasciano vuoti incolmabili. Shaul, in realtà, era un eroe già in vita. Un ragazzo conciliante e brillante, con un’anima da artista. Desiderava cantare lui. Nient’altro che cantare. Non potrà più farlo. Noi continueremo a cantare per lui.

    Shaul Greenglick
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