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    NEWS

    Tripoli 5 giugno ’67, ricordo di un pogrom

    Quando scoppiò la guerra dei Sei Giorni tra Israele, Egitto, Giordania e Siria con l’appoggio del blocco sovietico, la deflagrazione colpì tutto il mondo arabo. Certamente non fu un fulmine a ciel sereno, erano ormai quasi due decenni che la popolazione ebraica che viveva nei Paesi musulmani subiva angherie. Si tende a dimenticare che ciò provocò l’esodo di quasi la totalità degli ebrei che vivevano in Paesi arabi. Si calcola che oltre novecentomila persone abbandonarono ogni loro avere per espatriare e salvarsi la vita. Ogni tensione in Medio Oriente era l’occasione per organizzare manifestazioni violente e la vita per gli ebrei divenne insostenibile, soprattutto per i più umili che erano privi di protezioni influenti; così già dalla fine della Seconda Guerra Mondiale iniziò l’Alyiah Bet, l’esodo lento e inesorabile verso il nuovo stato d’Israele organizzato clandestinamente.
    In Libia, a Tripoli, addirittura le violenze iniziarono nel 1945 sotto gli occhi dell’esercito britannico, che non mosse un dito per impedire l’uccisione di cittadini inermi. Insomma, attesero flemmatici che gli arabi sfogassero la rabbia sul solito capro espiatorio.
    Per raccontare le sofferenze degli ebrei iracheni, siriani, libanesi, yemeniti, egiziani, tunisini, algerini, marocchini, che dovettero abbandonare tutto per ricostruirsi una vita altrove si potrebbe scrivere un libro; racconterò l’esperienza della mia famiglia che, anche se con alcune differenze, è simile a tutte le famiglie ebraiche della Libia.
    Era di lunedì il 5 Giugno del 1967, c’era il sole e faceva caldo. Sembrava una tranquilla giornata d’estate e a Tripoli la vita scorreva tranquilla, la gente era impegnata nella vita quotidiana. Poi, come quando le nuvole si addensano e minacciano un temporale, iniziarono a girare le voci che era scoppiata la guerra. La popolazione araba libica era infervorata dalla propaganda del presidente egiziano Nasser e considerava il conflitto arabo-israeliano come se fosse loro. Iniziarono a formarsi gruppi di facinorosi per le vie mentre arrivavano le prime notizie dai radio giornali in lingua araba che annunciavano la vittoria travolgente degli eserciti siriano, giordano ed egiziano sull’israeliano. L’euforia si trasformò in manifestazioni oceaniche e ci furono le prime aggressioni contro gli ebrei e le loro proprietà. Ancora oggi gli arabi non chiamano i cittadini d’Israele “israeliani”, ma “jud”, “ebrei”, poiché per loro non c’è alcuna differenza.

    Ci furono i primi assassinii: un macellaio kasher fu portato in strada e sgozzato con i suoi stessi arnesi da lavoro davanti alla sua bottega. Altri prelevati a casa con l’inganno e uccisi sul ciglio della strada nella prima periferia della città quando appena si fa campagna.
    Gli altri ebrei si barricarono nelle loro case con la propria famiglia o insieme in diversi nuclei per vincere la paura, mentre per le strade scoppiava l’inferno. I manifestanti iniziarono a bruciare i negozi degli ebrei, erano tante le attività e intere vie erano in fiamme. L’odore acre degli incendi saliva e invadeva gli appartamenti stipati di gente che si nascondeva dalla violenza.
    Avevo sei anni e ricordo nitidamente quei momenti: noi tre fratelli eravamo seduti sui letti con mia madre e mia nonna, il fumo saliva lentamente dal pavimento, era una coltre densa che faceva fatica a salire e a saturare l’ambiente. Le persiane erano chiuse, le luci spente, noi in silenzio e da fuori veniva un rumore ritmico di tamburo sovrastato dal ruggito ossessivo della folla. Eravamo paralizzati non dalla paura ma dall’inerzia di non sapere cosa fare, mio padre non era ancora tornato a casa. Restammo chiusi a casa per una settimana cercando di non fare rumore, ci aiutarono portandoci la spesa i nostri vicini siciliani; era un pericolo per loro, se fossero stati scoperti avrebbero avuto problemi.
    In seguito vi sono i racconti degli adulti, le immagini in bianco e nero, mischiati ai nostri ricordi sono diventati la nostra storia da raccontare.
    In quei giorni di segregazione mamma e papà maturarono l’intenzione di abbandonare Tripoli per sempre. Iniziarono a riempire le valigie di tutto ciò che era indispensabile per iniziare un’altra vita.
    Ricordo che grande conforto ci venne da Arrigo Levi nei telegiornali della Rai che a Tripoli si vedevano perfettamente e senza censura. Nessun esercito stava travolgendo Israele, anzi, i soldati israeliani avanzavano e conquistavano territori vastissimi e avevano liberato Gerusalemme.
    Anche se sono passati cinquantasette anni, ricordo ancora scansionati fotogramma per fotogramma quando lasciammo Tripoli. Le strade cosparse di automobili bruciate sui lati delle strade, i negozi con le serrande abbassate o neri di fuliggine, l’attesa interminabile all’aeroporto stracolmo di gente disperata e la prepotenza della polizia.
    L’ultima immagine che ho di Tripoli è vista dal finestrino dell’aeroplano, le case e i palazzi bianchi, la striscia di terra gialla e verde che si staglia in lontananza sul mare blu come il cobalto e una hostess che mi porge un cioccolatino e mi accarezza i capelli.
    Ciò che cominciò il 5 Giugno 1967 fu l’estinzione della permanenza bimillenaria degli ebrei di Libia. Neanche i nazisti riuscirono mai a rendere una nazione judenfrei come ci riuscirono loro.

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