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    Cultura

    Appartenenza e resilienza nella Spalato veneziana

    Due settimane di cultura italiana ed ebraica promosse dalla Dante Alighieri

    Si sono svolte a Spalato (Split) in Dalmazia le 15° Giornate di Cultura Italiana su un progetto ideato e realizzato dalla Prof.ssa Ljerka Šimunković, Emerita di italianistica croata, e dal Prof. Miroslav Rožman, sociologo della cultura e storia dalmata, per conto della locale Società Dante Alighieri. Il programma, sponsorizzato dal Comune di Spalato, aveva al centro dell’interesse Venezia e i suoi storici rapporti con la città dalmata tra letteratura, lingua, storia dell’arte, architettura e urbanistica, commerci e rapporti marittimi, musica ed ebraismo. Tra i partner del Progetto la Scuola di Musica di Omiš, la Biblioteca Civica Marko Marulić, l’Accademia di Belle Arti e la Comunità Ebraica di Spalato. Tra conferenze e concerti, numerosi sono stati gli spunti di approfondimento sulle relazioni e le influenze della Serenissima in relazione al tessuto storico-sociologico, linguistico, antropologico, artistico nonché quello ebraico, di questa perla dell’Adriatico centrale che diede i natali nella Provincia dell’Illiricum anche all’imperatore romano Diocleziano.
    Tra i conferenzieri, per la storia ebraica, il rabbino Scialom Bahbout con l’intervento Il Ghetto di Venezia tra passato e presente e la studiosa Suzana Glavaš con l’intervento Luciano Morpurgo, ponte tra Spalato e Venezia.
    Per il Ghetto di Venezia Rav Bahbout ha illustrato l’origine del nome ghetto, le cinque sinagoghe di Venezia e la provenienza degli ebrei provenienti da comunità ebraiche che praticavano minhaghim (usi) diversi: quello di origine tedesca, poi quello italiano e successivamente quello sefardita, di origine spagnola e levantina (della Turchia ottomana). Importante la centralità che ha avuto il Ghetto di Venezia nella creazione di una società ebraica multiculturale: gli usi convivevano anche se i suoi membri frequentavano sinagoghe diverse (le cinque sinagoghe monumentali di Venezia). Sinagoghe che erano state costruite utilizzando artisti e maestri veneziani non ebrei.
    Il Ghetto però non impedì agli ebrei di essere in continua relazione con gli ambienti esterni, anche perché i discorsi del Grande rabbino Leone Modena venivano seguiti anche dai veneziani: i suoi discorsi furono poi pubblicati in Francia e poi tradotti anche in italiano. Il Ghetto stesso veniva frequentato anche da non ebrei, salvo poi il fatto che a una certa ora veniva chiuso e solo i medici ebrei potevano uscire per curare i non ebrei che ne avevano bisogno. In una certa misura le mura del Ghetto se isolavano gli ebrei finirono per proteggerlo dalle violenze antiebraiche.
    Venezia fu però il centro della stampa ebraica di tutti i testi più importanti (i codici, le bibbie con commenti, ecc). Napoleone nel 1797 aprì il Ghetto ponendo fine alla segregazione degli ebrei veneziani. Nella Sinagoga Spagnola v’è ancora una testimonianza della guerra fatta dagli austriaci contro Venezia nel 1848: una bomba penetrò atraverso il ghetto, ma non fece altri guasti. Non va dimenticato che la Comunità ebraica aveva aderito con entusiasmo alla guerra contro gli austriaci: lo stesso Daniel Manin era di origine ebraica.
    Spalato era parte della potenza veneziana come tutta la Dalmazia: se Mussolini non avesse trascinato in guerra l’Italia a fianco della Grermania nazista, Spalato e la Dalmazia sarebbero ancora italiane e anche il triste evento delle Foibe non ci sarebe mai stato. A Spalato c’era una discreta comunità ebraica e tra le sue famiglie c’era la famiglia Morpurgo tra i cui figli spicca Luciano Morpurgo (Spalato 1886-Roma 1971).
    La figura e la storia di Luciano Morpurgo è stata illustrata a partire dalla sua infanzia e i primi studi nella città nativa con il successivo passaggio, all’età di 13 anni, a seguito della morte della madre Nina Gerstel, al prestigioso collegio religioso israelitico di Moisè Ravà, che aveva sede nell’ex Palazzo dei dogi Sagredo sul Canal Grande nel Campo Santa Sofia.
    Dei metodi di istruzione e di educazione al Collegio Ravà, per il periodo in cui vi studiò (1899-1903), Luciano Morpurgo Spalatino ha lasciato preziose pagine di testimonianza letteraria autobiografica in nove ultime novelle del suo primo libro d’autore Quando ero fanciullo. Libro per tutti i bambini dai 10 ai 70 anni (Roma, ed. Luciano Morpurgo 1938): un libro di 80 racconti e 125 illustrazioni, molte delle quali fatte dalle fotografie dello stesso Morpurgo. Il libro fu ripubblicato con pseudonimo Luciano Spalatino, ed. Dalmatia, Roma 1942 (nel pieno delle Leggi Razziali) e in terza e ultima edizione di nuovo col nome proprio di Luciano Morpurgo (ed. Dalmatia, Roma 1945).
    Dei suoi successivi studi a Venezia alla Scuola Superiore di Commercio presso l’università Ca’ Foscari (1903-1907) Morpurgo ha lasciato una novella autobiografica in cui in modo intrigante e dettagliato descrive le usanze dei festeggiamenti delle prime matricole veneziane che insieme a quelle padovane si radunarono a Bologna. Morpurgo racconta la sua visita a Carducci (“Una visita a Carducci”, pubblicata a Zara su “Rivista Dalmatica“ nel 1935) tre anni prima che il Poeta fosse insignito del Premio Nobel per la letteratura. Una cartolina illustrata della Biblioteca Marciana, con il testo e la firma di Luciano Morpurgo “bibliotecario“, confermano che egli vi lavorò di certo nel 1904, da studente del secondo anno.
    Terminati gli studi superiori a Venezia, Luciano rientrò a Spalato per curare gli affari relativi alla distilleria di famiglia, imparentata con gli Stock, ma nel 1915 decise di abbandonare l’amata Dalmazia per non essere richiamato alle armi tra le file dell’esercito austriaco che aveva occupato Spalato, stabilendosi definitivamente a Roma. Durante quelle due epoche esistenziali viaggiò molto in rappresentanza dell’azienda famigliare e fece numerosissime foto d’arte con quella sua prima macchina fotografica acquistata al Collegio Ravà da un compagno di classe nel 1900. Nel 1914 collaborò con l’industria fotografica Kilophot di Vienna e vi si cimentò in arte fotografica per fondare poi, nel 1919 a Roma, la propria Società Tipografica Grafia S.E.D.A. – Sezione Edizioni d’Arte, trasformata nel 1924 in Istituto Fotografico Italiano (I.F.I.).
    Maggiormente conosciuto come il primo fotografo d’arte italiano, il cui immenso lascito fotografico è depositato nel Fondo Fotografico Morpurgo (consultabile presso l’ICCD a Roma), Luciano Morpurgo rimane tuttavia fin troppo poco ricordato in Italia per le tante altre sue attività a Roma, dove aveva iniziato la sua attività professionale come tipografo e fotografo d’arte (Società Grafia) e dal 1925 come editore, con l’obbiettivo principale di pubblicare libri di viaggio e di arte. Pubblicò ad esempio Palestina di Roberto Almagià in quattro lingue, con tante sue foto (nel 1930) e la collana in sei volumi ITALIA…del mondo la più bella parte (negli scrittori italiani e stranieri), a cura di Luigi Parpagliolo (1928-1941) e tanti altri libri di valore. Si distinse infine anche come scrittore di prose autobiografiche tra cui va ricordato il diario di guerra Caccia all’uomo. Vita, sofferenze e beffe (Roma 1946, ed. Dalmatia di Luciano Morpurgo), una preziosa fonte di informazioni per gli storici e gli studiosi della Seconda guerra mondiale e della questione ebraica in Italia e in Dalmazia.
    Nota famiglia askenazita italiana la sua, stabilitasi a Spalato nel Seicento immigrandovi da Gradisca d’Isonzo, che per generazioni aveva dato notevoli contributi allo sviluppo socioeconomico e culturale a quella città dalmata veneziana e poi italiana. Luciano Morpurgo era figlio di Giuseppe, commerciante in tessuti con negozio in Piazza dei Signori (dal secondo dopoguerra rinominata Narodni trg) e nipote di Vito/Vid Morpurgo, fondatore della prima banca, noto libraio ed editore spalatino, voce autorevole del Risorgimento letterario croato nonché grande benefattore. Un suo fratello maggiore era Vittorio/Viktor, ingegnere chimico, che durante l’occupazione nazifascista di Spalato si trovava a presiedere la Comunità ebraica, fu deportato con centinaia dei suoi correligionari e ucciso nel campo di sterminio nazista serbo di Banjica (Belgrado) nel 1943. Le camicie nere, che nel 1942 devastarono la cinquecentesca sinagoga sefardita di Spalato e bruciarono in Piazza dei Signori i sacri arredi, i libri e i rotoli sacri, distrussero in quell’occasione anche l’unico esemplare dattiloscritto della storia degli ebrei di Spalato sotto la Repubblica Veneta, frutto di una lunga ricerca di Vittorio negli archivi di Venezia, Zara e Spalato.
    Ancor oggi la piccola Comunità ebraica di Spalato, come quella di Venezia – seppure con dimensioni assai diverse – è simbolo di resilienza come polo di attrazione turistica e allo stesso tempo testimonianza di una ricca storia culturale, economica e sociale, oltre che religiosa.
    I pochi ebrei di Spalato si riuniscono ancora oggi nella Sinagoga per parlare e stare insieme. La comunità di Spalato è un esempio di appartenenza e di resilienza che, come la comunità ebraica di Venezia, hanno cercato di (r)esistere alle avversità dei tempi e delle ideologie vigenti.

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