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    ISRAELE

    A quattro mesi dal 7 ottobre – Bilancio e prospettive

    L’invasione terrorista
    Sono passati quattro mesi. Il 7 ottobre 2023 Hamas, la Jihad Islamica, i “Martiri di Al Aqsa” di Fatah e qualche organizzazione terroristica minore, poco prima dell’alba, aprirono la guerra con Israele sparando migliaia di missili sulle città israeliane, distruggendo con razzi gli impianti di sorveglianza, sfondando con esplosivi e bulldozer la barriera di protezione del confine internazionalmente riconosciuto in 26 punti, invadendo il territorio israeliano con circa 3000 terroristi su jeep, motociclette e parapendio a motore, uccidendo le guardie di frontiera e i militari di guardia e poi invadendo, loro e i “civili” che li avevano seguiti, le località vicino al confine, compreso il prato dove si svolgeva una festa musicale, celebrando un’orribile sagra di morte, torture, stupri, rapimenti. Come è noto, gli israeliani di tutte le età assassinati in quelle ore furono oltre 1200, più di 240 i rapiti, circa 5000 i feriti, migliaia le donne stuprate.

    La dimensione militare
    Ci si è soffermati molte volte sull’aspetto criminale e barbarico di questo pogrom. Ma bisogna ragionare anche sulla sua dimensione politica e militare. I terroristi non si aspettavano di penetrare tanto facilmente, mettevano in conto una resistenza organizzata israeliana che non c’è stata, anche se gli allarmi sulla preparazione dell’invasione non erano mancati e se c’erano stati parecchi episodi eroici di resistenza individuale. Hamas aveva fatto invece evidentemente bene i conti con la successiva reazione israeliana, che è iniziata il 7 pomeriggio per quanto riguarda la caccia ai terroristi dispersi sul territorio israeliano, nei giorni successivi con i bombardamenti dell’aviazione sulle istallazioni militari più evidenti di Gaza e solo a fine mese con l’ingresso delle forze di terra nella Striscia. Da anni Hamas aveva previsto che prima o poi avrebbe i suoi attacchi avrebbero portato a un’operazione israeliana per sradicarla da Gaza. Escluso lo scontro militare classico, dove i terroristi sarebbero stati facilmente distrutti, avevano scelto la guerriglia; in assenza di larghi spazi di fuga e di foreste in cui nascondersi secondo le regole di Giap e di Mao, li avevano sostituiti con le installazioni sotterranee in cui hanno investito i miliardi provenienti dagli aiuti internazionali. Qui si nascondono ancora capi e truppe terroristiche, che escono per agguati e incursioni; qui hanno nascosto i rapiti.

    Le operazioni frenate
    L’esercito sapeva dei tunnel, ma i servizi di informazione non sono stati in grado di procurarsene le mappe e ancora non sanno, a quel che si capisce, dove davvero stiano i capi terroristi né i rapiti, nonostante le tecnologie, gli appelli e le promesse di ingenti ricompense. Questo secondo fallimento informativo (dopo il mancato allarme il 7 ottobre) ha fatto sì che le truppe israeliane dovessero procedere linearmente e con grande lentezza. Gaza è lunga 40 chilometri, meno che da Roma ad Anzio ed è larga per lo più 13 chilometri, come il diametro del raccordo anulare. In tre mesi e mezzo di operazioni di terra, ne è stata occupata meno della metà; molte zone fra cui soprattutto la città di Rafah, dove forse stanno i rapiti e i capi terroristi, non sono stati ancora presi. Da altri luoghi catturati l’esercito si è ritirato, per risparmiare le truppe e per non prestare un bersaglio immobile al terrorismo; purtroppo ci sono segnali consistenti che Hamas riprende rapidamente il controllo di queste zone abbandonate. I terroristi hanno calcolato anche che l’ingresso delle truppe israeliane, con le inevitabili vittime civili, che pure Israele cerca nei limiti del possibile di evitare, avrebbe innescato una mobilitazione antisemita mondiale e avrebbe indotto anche gli alleati storici di Israele a limitarne le attività, chiedendo il cessate il fuoco e addirittura l’istituzione di uno stato palestinese: un premio assurdo al terrorismo che provocherebbe molte altre aggressioni come il 7 ottobre.

    È possibile vincere la guerra?
    Israele sta certamente colpendo duro, si calcola che siano fuori combattimento la metà delle truppe terroristiche. Se il governo riuscirà a proseguire la guerra, usando diplomazia e resistenza alle pressioni, è possibile vincere questa sfida decisiva, cambiando per il meglio il destino del Medio Oriente e forse del mondo. Ma questa è una guerra asimmetrica, il parametro della vittoria non è aver distrutto più reparti o soldati nemici o aver espugnato più territorio. Dev’essere chiaro che Israele avrà vinto solo se la sua vittoria sarà chiara a tutti in Medio Oriente, e cioè se avrà smantellato fino in fondo l’organizzazione di Hamas, distrutto tutte le sue installazioni, ucciso i suoi capi; se sarà stato capace di allontanare Hezbollah dal confine settentrionale; se avrà liberato i rapiti senza restituire a Hamas se non marginalmente i terroristi incarcerati; se la sistemazione finale di Gaza consentirà per molti anni alle forze di sicurezza israeliane di fare quella sorveglianza attiva continua che ha impedito l’esplosione di Giudea e Samaria – il che è incompatibile con l’instaurazione di un vero stato palestinese, con il controllo su Gaza dell’Autorità Palestinese. È difficile, ma si può ottenere. A patto che l’Occidente e soprattutto gli Stati Uniti capiscano la necessità a la comune utilità di permettere a Israele la propria autodifesa.

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