L’Iran si assume la responsabilità
C’è stata ieri una dichiarazione iraniana molto
significativa. In occasione dei funerali di Razi Mousawi, l’alto ufficiale
iraniano ucciso a Damasco in un attentato attribuito a Israele, il portavoce
delle Guardie rivoluzionarie iraniane Ramazan Sharif ha dichiarato che la
vendetta sarà “sia diretta che indiretta”, alludendo così a una risposta
militare sia da parte dell’Iran che dei suoi burattini degli iraniani. Sharif
ha però subito aggiunto per spiegare meglio il concetto che il “Tufan
Al-Aqsa” (“il diluvio di Gerusalemme”, come i terroristi hanno chiamato il
pogrom del 7 ottobre) faceva parte della vendetta per l’uccisione del
comandante della forza Al-Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Qassem
Soleimani (ucciso dagli americani quattro anni fa). In sostanza, Sharif ha
rivendicato che direttamente l’Iran fosse il mandante del pogrom del 7 ottobre
e implicitamente ne ha minacciato la ripetizione, come avevano già fatto nelle
settimane scorse sia Hamas che importanti dirigenti dell’Autorità Palestinese.
La responsabilità dell’Iran per i crimini di Hamas è sempre stata denunciata da
Israele, ma gli ayatollah avevano cercato di negare il loro ruolo, arrivando a
dire che “la Resistenza” (cioè i gruppi terroristi) “possono benissimo svolgere
il loro compito” senza bisogno dell’intervento dell’Iran. Come dire: “armiamoci
e partite”. Tale negazione serve sia per sottrarsi alla responsabilità, sia per
dar credito alla rivendicazione di Hamas di un autonomo ruolo “nazionale” della
sua “lotta”. Ora la dichiarazione di Sharif fa giustizia di questa autonomia ed
espone la responsabilità iraniana. E in effetti Hamas ha subito smentito,
dicendo di aver fatto tutto da solo; dopo un po’ anche Sharif ha detto di
essere stato frainteso. È vero, ha spiegato, che il 7 ottobre fa parte della
vendetta per Soleimani, ma solo per il fatto di essere stato fatto, non per
essere stato progettato come tale. Buttato il sasso, cioè la minaccia, è
possibile nascondere la mano.
significativa. In occasione dei funerali di Razi Mousawi, l’alto ufficiale
iraniano ucciso a Damasco in un attentato attribuito a Israele, il portavoce
delle Guardie rivoluzionarie iraniane Ramazan Sharif ha dichiarato che la
vendetta sarà “sia diretta che indiretta”, alludendo così a una risposta
militare sia da parte dell’Iran che dei suoi burattini degli iraniani. Sharif
ha però subito aggiunto per spiegare meglio il concetto che il “Tufan
Al-Aqsa” (“il diluvio di Gerusalemme”, come i terroristi hanno chiamato il
pogrom del 7 ottobre) faceva parte della vendetta per l’uccisione del
comandante della forza Al-Quds delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Qassem
Soleimani (ucciso dagli americani quattro anni fa). In sostanza, Sharif ha
rivendicato che direttamente l’Iran fosse il mandante del pogrom del 7 ottobre
e implicitamente ne ha minacciato la ripetizione, come avevano già fatto nelle
settimane scorse sia Hamas che importanti dirigenti dell’Autorità Palestinese.
La responsabilità dell’Iran per i crimini di Hamas è sempre stata denunciata da
Israele, ma gli ayatollah avevano cercato di negare il loro ruolo, arrivando a
dire che “la Resistenza” (cioè i gruppi terroristi) “possono benissimo svolgere
il loro compito” senza bisogno dell’intervento dell’Iran. Come dire: “armiamoci
e partite”. Tale negazione serve sia per sottrarsi alla responsabilità, sia per
dar credito alla rivendicazione di Hamas di un autonomo ruolo “nazionale” della
sua “lotta”. Ora la dichiarazione di Sharif fa giustizia di questa autonomia ed
espone la responsabilità iraniana. E in effetti Hamas ha subito smentito,
dicendo di aver fatto tutto da solo; dopo un po’ anche Sharif ha detto di
essere stato frainteso. È vero, ha spiegato, che il 7 ottobre fa parte della
vendetta per Soleimani, ma solo per il fatto di essere stato fatto, non per
essere stato progettato come tale. Buttato il sasso, cioè la minaccia, è
possibile nascondere la mano.
Hamas e Autorità Palestinese
Sono argomenti un po’ contorti, che si capiscono solo nel
quadro della sistematica opacità della retorica politica mediorientale. Un
altro esempio significativo di questi legami politici, affermati o negati a
seconda della convenienza, è quello dei rapporti fra Hamas e Autorità
Palestinese. Vi sono molte iniziative di “pace”, in Europa, negli Stati Uniti e
anche da parte di certi esponenti dell’opposizione di sinistra in Israele, che
cercano di fermare l’azione israeliana di sradicamento del terrorismo proponendo
di affidare Gaza all’amministrazione dell’Autorità Palestinese. Questa è oggi
particolarmente debole e corrotta nelle mani dell’ottantottenne Mahmud Abbas,
detto Abu Mazen, eletto presidente per un mandato di quattro anni, diciannove
anni fa, il 25 gennaio 2005. Costui ha prima negato la sua partecipazione a
questi progetti, ma poi ha fatto capire che potrebbe starci, nel quadro di un
“governo di unità nazionale”. “L’Autorità Palestinese, ha detto, non ha mai
abbandonato Gaza.” Per capire il senso di queste oscillazioni, bisogna tener
conto di alcuni fatti. Gaza era stata lasciata all’AP da Sharon nel 2005, ma fu
espropriata da Hamas nel 2007 con un sanguinoso colpo di stato. Da allora fra
Hamas e Fatah (il partito di Abbas) vi è stata una sorta di guerra civile a
corrente alternata: Abbas ha fatto il possibile per mettere in difficoltà Hamas
ed è stato ricambiato con frequenti tentativi di estromissione militare,
sventati spesso proprio da Israele. In questa catena di tentativi di
distruzione reciproca, vi sono stati sporadiche trattative di pace
sponsorizzate dall’Egitto, celebrate immediatamente al loro inizio come un
grande successo contro Israele ma tutte fallite subito dopo.
quadro della sistematica opacità della retorica politica mediorientale. Un
altro esempio significativo di questi legami politici, affermati o negati a
seconda della convenienza, è quello dei rapporti fra Hamas e Autorità
Palestinese. Vi sono molte iniziative di “pace”, in Europa, negli Stati Uniti e
anche da parte di certi esponenti dell’opposizione di sinistra in Israele, che
cercano di fermare l’azione israeliana di sradicamento del terrorismo proponendo
di affidare Gaza all’amministrazione dell’Autorità Palestinese. Questa è oggi
particolarmente debole e corrotta nelle mani dell’ottantottenne Mahmud Abbas,
detto Abu Mazen, eletto presidente per un mandato di quattro anni, diciannove
anni fa, il 25 gennaio 2005. Costui ha prima negato la sua partecipazione a
questi progetti, ma poi ha fatto capire che potrebbe starci, nel quadro di un
“governo di unità nazionale”. “L’Autorità Palestinese, ha detto, non ha mai
abbandonato Gaza.” Per capire il senso di queste oscillazioni, bisogna tener
conto di alcuni fatti. Gaza era stata lasciata all’AP da Sharon nel 2005, ma fu
espropriata da Hamas nel 2007 con un sanguinoso colpo di stato. Da allora fra
Hamas e Fatah (il partito di Abbas) vi è stata una sorta di guerra civile a
corrente alternata: Abbas ha fatto il possibile per mettere in difficoltà Hamas
ed è stato ricambiato con frequenti tentativi di estromissione militare,
sventati spesso proprio da Israele. In questa catena di tentativi di
distruzione reciproca, vi sono stati sporadiche trattative di pace
sponsorizzate dall’Egitto, celebrate immediatamente al loro inizio come un
grande successo contro Israele ma tutte fallite subito dopo.
La dichiarazione del primo ministro dell’Autorità
Palestinese
Palestinese
Ma ora, quando il gradimento di Abbas fra il pubblico dei
territori che governa è sceso verso il dieci per cento e quello per Hamas è
invece largamente maggioritario (assai più in Giudea e Samaria che a Gaza, a
quanto pare, il che è certamente significativo), l’Autorità Palestinese ha
ritenuto necessario impegnarsi a difendere Hamas e ad associare in qualche modo
con essa. Il primo ministro dell’AP Mohammad Shtayyeh, fedele esecutore della
linea di Abbas, ha dichiarato ufficialmente a un incontro di capi di stato e di
governo tenuto in Qatar la settimana scorsa: “Vogliamo una situazione in cui i
palestinesi siano uniti. … Penso che sia giunto il momento che Hamas chiami il
presidente palestinese [Mahmoud Abbas] e gli dica: siamo tutti uniti dietro di
te, tu sei l’autorità legittima del popolo palestinese e siamo pronti a
impegnarci [in un cammino comune]”. Quando i giornalisti gli hanno chiesto di
prendere una posizione sul pogrom del 7 ottobre, Shtayyeh ha rifiutato di
condannare il massacro di Hamas, affermando che il conflitto non è iniziato in
quella data (il che somiglia molto alle dichiarazioni molto criticate e mai
ritirate del segretario dell’Onu Guterres, ringraziato per questo da Hamas) e
sostenendo che neppure i governanti israeliani non si sono espressi contro
“le cose fatte dai loro cittadini ai palestinesi”, come se ci fosse
stato mai un 7 ottobre al rovescio perpetrato dagli israeliani contro gli
arabi. In conclusione, ha dichiarato che Hamas è una “parte essenziale del
mosaico politico palestinese”, che l’AP l’ha difeso all’Onu e che non deve
assolutamente essere cancellato. Nel frattempo, però, come ho già detto, l’AP
nei contatti con l’Egitto, l’Autorità Palestinese ha in sostanza accettato di
sostituire Hamas nel governo della Striscia, sotto lo schermo di un governo di
unità nazionale, come le hanno proposto l’Egitto, l’Arabia Saudita e la
Francia.
territori che governa è sceso verso il dieci per cento e quello per Hamas è
invece largamente maggioritario (assai più in Giudea e Samaria che a Gaza, a
quanto pare, il che è certamente significativo), l’Autorità Palestinese ha
ritenuto necessario impegnarsi a difendere Hamas e ad associare in qualche modo
con essa. Il primo ministro dell’AP Mohammad Shtayyeh, fedele esecutore della
linea di Abbas, ha dichiarato ufficialmente a un incontro di capi di stato e di
governo tenuto in Qatar la settimana scorsa: “Vogliamo una situazione in cui i
palestinesi siano uniti. … Penso che sia giunto il momento che Hamas chiami il
presidente palestinese [Mahmoud Abbas] e gli dica: siamo tutti uniti dietro di
te, tu sei l’autorità legittima del popolo palestinese e siamo pronti a
impegnarci [in un cammino comune]”. Quando i giornalisti gli hanno chiesto di
prendere una posizione sul pogrom del 7 ottobre, Shtayyeh ha rifiutato di
condannare il massacro di Hamas, affermando che il conflitto non è iniziato in
quella data (il che somiglia molto alle dichiarazioni molto criticate e mai
ritirate del segretario dell’Onu Guterres, ringraziato per questo da Hamas) e
sostenendo che neppure i governanti israeliani non si sono espressi contro
“le cose fatte dai loro cittadini ai palestinesi”, come se ci fosse
stato mai un 7 ottobre al rovescio perpetrato dagli israeliani contro gli
arabi. In conclusione, ha dichiarato che Hamas è una “parte essenziale del
mosaico politico palestinese”, che l’AP l’ha difeso all’Onu e che non deve
assolutamente essere cancellato. Nel frattempo, però, come ho già detto, l’AP
nei contatti con l’Egitto, l’Autorità Palestinese ha in sostanza accettato di
sostituire Hamas nel governo della Striscia, sotto lo schermo di un governo di
unità nazionale, come le hanno proposto l’Egitto, l’Arabia Saudita e la
Francia.
Il giudizio di Netanyahu
Si capisce bene, dunque, perché il primo ministro di
Israele, Benjamin Netanyahu, abbia dichiarato alla riunione del gabinetto di
guerra qualche giorno fa che la differenza fra Hamas e Autorità Palestinese è
solo una questione di tempi e di occasioni: Hamas cerca di distruggere Israele
subito, l’Autorità Palestinese attende l’occasione più favorevole. Soprattutto,
alla luce di questi giudizi, si chiarisce il senso preciso delle tre condizioni
per la fine della guerra stabilite da Netanyahu: la prima è la sconfitta
completa di Hamas; la seconda è la totale smilitarizzazione della Striscia di
Gaza, che implica la neutralizzazione di tutti i terroristi; la terza è la
“deradicalizzazione” del popolo palestinese, che in linguaggio più concreto
implica la necessità di smontare quella macchina di corruzione e di copertura
del terrorismo che oggi è l’Autorità Palestinese per sostituirla con
un’amministrazione che accetti per davvero il diritto di Israele a vivere
tranquillamente, non alimenti dunque il terrorismo né con i finanziamenti, né
con i media e con l’educazione, che insomma diventi un normale governo che
rispetta i propri vicini. “Vaste programme”, come avrebbe commentato il
generale De Gaulle: ci vorrebbe tempo, energie e collaborazione internazionale.
Ma la direzione della pace è solo quella.
Israele, Benjamin Netanyahu, abbia dichiarato alla riunione del gabinetto di
guerra qualche giorno fa che la differenza fra Hamas e Autorità Palestinese è
solo una questione di tempi e di occasioni: Hamas cerca di distruggere Israele
subito, l’Autorità Palestinese attende l’occasione più favorevole. Soprattutto,
alla luce di questi giudizi, si chiarisce il senso preciso delle tre condizioni
per la fine della guerra stabilite da Netanyahu: la prima è la sconfitta
completa di Hamas; la seconda è la totale smilitarizzazione della Striscia di
Gaza, che implica la neutralizzazione di tutti i terroristi; la terza è la
“deradicalizzazione” del popolo palestinese, che in linguaggio più concreto
implica la necessità di smontare quella macchina di corruzione e di copertura
del terrorismo che oggi è l’Autorità Palestinese per sostituirla con
un’amministrazione che accetti per davvero il diritto di Israele a vivere
tranquillamente, non alimenti dunque il terrorismo né con i finanziamenti, né
con i media e con l’educazione, che insomma diventi un normale governo che
rispetta i propri vicini. “Vaste programme”, come avrebbe commentato il
generale De Gaulle: ci vorrebbe tempo, energie e collaborazione internazionale.
Ma la direzione della pace è solo quella.