I sette fronti
di Israele
Come ha dichiarato di nuovo ieri il ministro della
difesa Yoav Gallant, attualmente Israele è attaccato da sette lati: Gaza,
Giudea/Samaria, Yemen, Siria, Libano, Iraq e Iran. Di questi fronti il più
attivo è quello di Gaza, da cui si è sviluppata l’invasione del 7 ottobre e
dove oggi sono impegnate le truppe sul terreno. Ma esso non è probabilmente il
più pericoloso, o almeno non lo è più, dopo due mesi e mezzo di combattimenti.
L’Iran è la fonte principale di tutti gli attacchi a Israele, ma ha scelto di
combattere per mezzo degli arabi che in fondo disprezza, senza mettere a
rischio le proprie truppe. Anche quando Israele gli infligge un brutto colpo
come l’uccisione in Siria del generale Razi Mousawi, forse il più importante
ufficiale delle Guardie Rivoluzionario eliminato dopo Soleimani, gli ayatollah
reagiscono minacciando rappresaglie apocalittiche, ma stando attenti a non
entrare direttamente in guerra. L’Iraq è abbastanza lontano dai confini
israeliani, e la fazione sciita in quel paese, pilotata anch’essa dall’Iran, se
la prende soprattutto con le basi americane, almeno in parte ricambiato. Lo
Yemen fa lo stesso con il commercio marittimo internazionale che porta merci
vitali all’Europa dal Golfo Persico e dall’Estremo Oriente, e anche qui la
risposta è guidata dagli Usa, che anzi hanno chiesto a Israele di non agire in
prima persona, analogamente a quanto accadde durante la prima guerra del Golfo.
La Siria
Resta il fronte settentrionale, che si divide fra
Siria e Libano. In Siria, vicino al Golan israeliano, sono schierate truppe
iraniane e di Hezbollah, oltre che l’esercito siriano, telecomandato dall’Iran
e direttamente appoggiato dalla Russia. Qui Israele è intervenuto spesso con
bombardamenti di interdizione, per evitare accumuli di armi e truppe vicino ai
propri confini. Ma non è un punto molto attivo, anche perché la capitale
Damasco è ad appena 60 chilometri dal confine israeliano e non vi sono ostacoli
naturali a difenderla; i carri armati israeliani potrebbero arrivarci in un’ora
o poco più e la Siria non ha oggi aviazione o forze corazzate sufficienti per
impedirlo.
La lunga
storia del conflitto fra Israele e Libano
Il confine davvero pericoloso in questo momento è
dunque quello libanese. Vi sono ragioni geografiche per questo pericolo: il
territorio libanese incombe dall’alto in basso sulla pianura costiera che porta
a Haifa e anche sulla riva settentrionale del lago Kinneret, un po’ come faceva
la Siria prima di essere sloggiata dal Golan. Da qui non è difficile tagliare
in due il paese, arrivando fino alla valle di Jeezrael e a Bet Shean. Vi sono
poi ragioni storiche: oltre ai conflitti storici dal 1948 al 1967, vi sono
state già due guerre fra Israele e Libano, nel 1982 e nel 2006 e soprattutto la
seconda è stata difficile per l’esercito israeliano che ha fatto fatica a
manovrare nelle strette valli delle montagne libanesi. Israele ha sentito
spesso una qualche vicinanza con il Libano cristiano di un tempo, ha cercato
alleanze con le forze che lo difendevano e ha anche costituito una zona
cuscinetto nel Libano del Sud abbandonata però presto. Ma il problema del
Libano si chiama Hezbollah.
Hezbollah
Fondato appena nel 1982, Hezbollah organizza la
maggior parte degli arabi sciiti che sono diventati la componente demografica
maggioritaria del Libano. Grazie al supporto iraniano, Hezbollah controlla o
paralizza tutte le istituzioni dello stato libanese; la forza militare del
movimento è cresciuta a tal punto nel corso degli anni tanto da essere
considerata non solo molto più potente dell’esercito regolare libanese ma, della maggior parte delle forze armate arabe,
tanto da essere stata determinante nel mantenere al potere Assad nella guerra
civile libanese. Per l’Iran il Libano è fondamentale perché costituisce il
punto finale della “mezzaluna sciita”, il “ponte terrestre” che per la
strategia degli ayatollah dovrebbe congiungere la Persia al Mediterraneo,
sancendo per la prima volta da tredici secoli il predominio sciita sull’Islam.
Per ottenere questo risultato L’Iran ha scelto il pretesto ideologico della
lotta contro Israele e ha armato Hezbollah più di chiunque altro del suoi
satelliti. Oggi si ritiene che il movimento terrorista libanese abbia fra i 100
e i 200 mila missili puntati sul territorio israeliano, fra cui molti
attrezzati con le tecnologie di navigazione che consentono una grande
precisione di tiro; comunque tanti da poter saturare le difese di Iron Dome e
colpire molto pesantemente le basi militari israeliane e anche la popolazione
civile. A questo quadro bisogna aggiungere che anche Hezbollah, come Hamas, ha
scavato gallerie oltre il confine con Israele, alcune delle quali sono state
scoperte; ma probabilmente non tutte. Infine il tentativo di appeasment di
Hamas condotto dal governo Lapid sotto pressione americana, violando le regole
costituzionali per concedere al Libano senza il referendum previsto una fetta
di fondale marino ricca di gas al confina fra i due paesi, non ha evidentemente
ottenuto il risultato che si attendeva, visto che non ha affatto frenato
Hezbollah dal partecipare alla guerra.
Una
solidarietà parziale
I terroristi libanesi da subito dopo il 7 ottobre
hanno mostrato la loro solidarietà ad Hamas provocando ogni giorno alcuni
scontri a fuoco sul confine, bombardando case, sparando razzi contro
automobili. Ancora ieri hanno tirato un missile su una chiesa ortodossa in
Galilea, ferendo il sacrestano e poi i soldati israeliani che lo stavano
soccorrendo. Sono riusciti a fare sfollare tutta la popolazione israeliana
dell’Alta Galilea, che non può tornare a casa prima che la minaccia terrorista
non sia finita. Ma hanno badato bene a non superare la soglia della guerra vera
e propria e Israele ha accettato la tattica rispondendo in maniera strettamente
proporzionale, perché non era nel suo interesse avere due guerre aperte
contemporaneamente.
Il dilemma
Ora però Israele si trova di fronte a un dilemma.
Deve continuare in questa tattica, non aprendo subito un conflitto che rischia
di essere molto più difficile e costoso (anche in termini di israeliani uccisi)
di quello di Gaza? O deve continuare a stare al gioco degli Hezbollah, sapendo
però che essi non sono stati affatto dissuasi dal tentare un’invasione come quella
del 7 ottobre e magari assai più grande, ma aspettano solo il momento più
conveniente per muoversi di sorpresa? Questo è il maggior problema strategico
di questo momento per la leadership politica e militare di Israele. Per il
momento Israele ha chiesto ufficialmente che Hezbollah sia obbligato a
rispettare la risoluzione 1701 della Nazioni Unite che decise, come condizione
per la fine della guerra del 2006, di obbligare Hezbollah a ritirarsi a nord
del fiume Litani, che corre in media a 10-15 chilometri dal confine di Israele
(ma in un punto i chilometri sono solo 5). Per ora Hezbollah non ha accettato e
Israele minaccia di costringerlo con le armi, il che vorrebbe dire guerra
aperta. Ma basterebbe questa ritirata ad annullare il pericolo di un gruppo la
cui forza principale sono i missili? Non bisognerà comunque cercare di
sconfiggere e sbandare questo gruppo che si propone la distruzione di Israele
come obiettivo strategico? E che farà allora l’Iran, che ha investito su
Hezbollah ben di più che su Hamas? Nessuno può dirlo oggi; ma certo il vero
problema in Medio Oriente è questo: l’esistenza di un gruppo terroristico
potentemente armato e di uno stato (l’Iran) che lo alimenta e cerca di
affermarsi attraverso un nuovo genocidio degli ebrei.