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    Dopo la guerra molti problemi resteranno aperti

    Che fare dopo la guerra?

    La guerra contro i terroristi è ben lungi dall’essere
    terminata, come si vede anche dai lanci di missili che negli ultimi giorni essi
    sono riusciti ancora a fare sulle principali città israeliane: da quelle vicine
    come Ashdod e Beer Sheva, fino alle grandi zone urbane di Tel Aviv e di
    Gerusalemme. Ma l’operazione procede e, se le sarà lasciato ancora il tempo che
    ci vuole, senza dubbio sarà in grado di smantellare completamente l’imponente
    complesso di fortificazioni sotterranee costruite da Hamas in tutta la Striscia
    con investimenti enormi nel corso di due decenni; e riuscirà anche a
    eliminare  i suoi capi sopravvissuti fino
    a oggi che si nascondono ora in queste gallerie, salvo quelli che riusciranno a
    scappare in Egitto. Resta il compito difficilissimo di trovare e salvare i
    rapiti, ma questo sarà probabilmente il compito finale della missione a Gaza,
    perché essi sono probabilmente tenuti vicini ai capi terroristi come scudi
    umani della loro vita. Ma la conclusione militare della guerra a Gaza pone dei
    problemi politici e di sicurezza di grande complessità.

     

    Giudea e Samaria

    Il primo problema riguarda Giudea e Samaria, dove
    l’attività terroristica, incessante già da prima della guerra, è stata moderata
    solo dall’azione continua delle forze di sicurezza, che hanno arrestato oltre
    un migliaio e mezzo di terroristi e simpatizzanti smantellando le loro
    strutture sotterranee che riproducevano in piccolo quelle di Gaza e
    liquidandone oltre un centinaio. È chiaro che bisognerà andare avanti così,
    cercando giorno per giorno di bloccare un meccanismo di emulazione, imitazione
    e militanza organizzata, lo stesso che l’altro ieri ha portato alla morte
    autoinflitta di due ragazzi di 16 e 14 anni che stavano trasportando in moto
    una bomba improvvisata (IED) da loro costruita, per impiantarla su una strada
    della Samaria.

     

    Il Libano

    Il secondo problema è che cosa fare riguardo agli
    alleati di Hamas che stanno sugli altri fronti. In particolare, dopo che per
    tutto il tempo della guerra Israele ha tollerato che Hezbollah sparasse razzi
    sui villaggi della Galilea, rispondendo solo colpo su colpo e badando a non
    provocare un’escalation del conflitto, per non dover combattere una guerra su
    due fronti. Ma ora che progressivamente una parte delle truppe potrà lasciare
    Gaza all’azione delle forze speciali impegnate a distruggere le gallerie, la
    domanda è che fare con una forza altrettanto aggressiva e molto più potente di
    quella di Hamas. Si può lasciare che, contro le risoluzioni dell’Onu, che
    avevano stabilito nel 2006 che non potessero stare al sud del fiume Litani, una
    quindicina di chilometri in media a nord del confine di Israele? Lo si può
    ottenere per via diplomatica? Ma basterà?

     

    È possibile convivere col terrorismo di Hezbollah?

    Si può vivere a fianco di un esercito terrorista che
    minaccia disastri ancora maggiori di quelli del 7 ottobre? O bisognerà cercare
    di distruggere la forza militare di Hezbollah come quella di Hamas, al costo di
    combattimenti durissimi, bombardamenti intensi su tutto Israele, troppo intensi
    per fermarli con Iron Dome, e naturalmente di una rovina per il Libano
    meridionale pari a quella di Gaza? Gli Usa, al solito, hanno cercato di trovare
    un piano accettabile anche per Hezbollah, con il ritiro dei terroristi a Nord
    del Litani, in cambio dell’abbandono da parte di Israele di qualche territorio
    minore che l’Onu ha assegnato allo stato ebraico sulla base dei confini
    storici, ma che il Libano rivendica. Ma è accettabile questa soluzione che
    permette a Hezbollah di non perdere la faccia né la forza missilistica, dunque
    di rivendicare una vittoria che compenserebbe la sconfitta di Hamas e
    proverebbe che il terrorismo comunque paga? 
    Gli abitanti della Galilea, che sono dovuti sfollare per sfuggire ai
    tiri dei terroristi, possono tornare a casa sapendo che la minaccia è sempre
    lì, coi missili e le fortificazioni nemiche costruite anche se per il momento
    sguarnite? E chi controllerà che il ritiro di Hezbollah non sia fittizio o
    provvisorio, visto che la forza dell’Onu che doveva garantirla, quell’UNIFIL in
    cui anche i militari italiani hanno avuto una parte notevole e talvolta anche
    il comando, si è rivelata completamente inefficiente? Vi sono stati negli anni
    scorsi situazioni in cui i militari di questa forza si sono lasciati bloccare,
    depredare dai loro mezzi, perfino uccidere dai terroristi e dai loro simpatizzanti.
    Pochi giorni fa è stato documentato un lancio di missili contro Israele
    letteralmente a pochi metri da una postazione dell’Unifil, che non ha fatto
    nulla per impedirla. La reazione israeliana ha colpito, oltre al gruppo
    terrorista, anche alcuni militari della forza internazionale, provocando
    proteste, ma non cambi di politica.

     

    Siria e Yemen

    Un problema analogo rischia di porsi per quanto
    riguarda la Siria, con la costruzione di forza iraniana e di Hezbollah ai
    confini del Golan, che Israele cerca da anni di bloccare con bombardamenti. È
    un rischio che si è intensificato in questi mesi e che potrebbe portare prima o
    poi a uno scontro diretto di fanterie e carri armati. E poi c’è la questione
    dello Yemen, dove la coalizione internazionale per evitare il blocco del canale
    di Suez ha raggiunto, a quanto pare i quaranta paesi (ma senza Cina e Russia
    che non agiscono contro i pirati e in cambio non sono attaccate da loro), ma
    sembra orientato più che a colpire gli Houti per togliere i loro i mezzi militare
    che minacciano le navi commerciali, a metterle in convoglio e scortarle, con
    una forma di difesa solo passiva. È questa attitudine a non combattere
    direttamente le varie forme di pirateria e terrorismo a costituire il grande
    problema della politica occidentale in questo periodo, perché essa è poco
    efficace e incoraggia in sostanza i terroristi a violare sempre più spesso e
    sempre più a fondo la legalità internazionale, dando loro un crescente senso di
    impunità. Non a caso Israele ha deciso di mandare nel Mar Rosso alcune unità
    militari, ma di non inserirle nella flotta internazionale pur coordinarsi con
    gli Usa, per mantenere la propria capacità di reazione se gli Houti riuscissero
    fare danni seri con i loro missili e droni a navi o al territorio israeliano.
    Dopo la guerra resterà comunque il problema di come trattare questi nidi di
    violenza e terrorismo che ormai costellano il Medio Oriente, grazie alla
    protezione, al finanziamento e agli armamenti che vengono dall’Iran.

     

    Che fare a Gaza?

    Da questo quadro di problemi mancano due problemi
    principali. Il primo è che fare della Striscia di Gaza, una volta completamente
    conquistata e il secondo è come regolarsi con l’Iran, che al di là dell’uso dei
    suoi satelliti (Hamas, Hezbollah, Houti, esercito siriano, gruppi sciiti in
    Iraq e Bahrein) resta il nemico principale e la più grave preoccupazione
    strategica di Israele, con l’armamento atomico vicinissimo (se non già
    raggiunto), l’alleanza con la Russia e un arsenale convenzionale in forte
    crescita, grazie anche al fatto che l’amministrazione Biden ha sbloccato nei
    mesi scorsi ingenti fondi che erano stati sequestrati da Trump. L’Iran è la
    testa dell’idra del terrorismo in medio Oriente. Sarà possibile neutralizzarlo?
    Ne dovremo parlare ancora.

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