“Eravamo in sette in auto. Ci sono volute tre ore per riuscire a scappare dall’area del festival. I terroristi di Hamas-Isis ci avevano accerchiato da ogni lato. Mentre ci allontanavamo, abbiamo incontrato centinaia di persone che correvano verso di noi, sulla strada principale, tornando verso il sito del festival. Avevano i terroristi alle spalle, che li inseguivano e sparavano loro nella schiena. La gente cadeva a terra morta, mentre correva. Anche noi abbiamo sentito il fischio delle pallottole passarci accanto. Abbiamo iniziato a guidare in mezzo ai campi. Sul lato destro c’erano quattro o cinque terroristi di Hamas che ci puntavano addosso armi pesanti. Hanno iniziato a sparare verso l’auto ed è lì che sono stato ferito alla gamba destra. La pallottola è entrata da fuori ed è uscita dall’interno coscia. Poi è entrata nel polpaccio sinistro. In quel momento stavo parlando al telefono con mia moglie, incinta al nono mese della nostra prima figlia. Le ho dovuto mentire, dirle che andava tutto bene, che eravamo al sicuro. Non volevo dirle che ero ferito perché temevo che entrasse in travaglio per lo stress. Abbiamo incrociato un altro gruppo di terroristi che ci hanno sparato addosso ma fortunatamente, questa volta, non ci hanno feriti. Dopo pochi chilometri l’auto ci ha mollato e non è più ripartita. A quel punto ci siamo nascosti nei campi. Uno degli amici mi ha aiutato a fermare il sanguinamento della gamba, perché non perdessi conoscenza e potessi continuare la fuga. Un altro nostro amico, invece, che era seduto davanti accanto al guidatore, era stato colpito alla schiena e al collo ed è morto due ore dopo. Ci sono volute altre tre ore, durante le quali avevamo condiviso la nostra posizione con chiunque conoscessimo e con le forze dell’ordine, perché qualcuno venisse a salvarci. Sulla strada per l’ospedale, per la prima volta, ho raccontato la verità a mia moglie. A quel punto la batteria del mio telefono è crollata. E anche io”.