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    La resa di gruppi terroristi e il condizionamento americano

    Gli scontri sul terreno

    L’operazione a Gaza prosegue. I combattimenti, soprattutto a Khan Younis e Jabilia sono ormai condotti a distanza ravvicinata e spesso anche nelle gallerie, con agguati e colpi di mano, che purtroppo hanno accresciuto le perdite dei militari israeliani, arrivate ormai al centinaio. Lo sviluppo più significativo nel fine settimana sono state alcune rese di gruppo fra i terroristi di Hamas che sono usciti dai tunnel per consegnarsi all’esercito israeliano. Le fotografie di reparti di uomini in fila in mutande (lasciati così per motivi di sicurezza, per assicurarsi cioè che non portassero armi o cinture esplosive) e condotti verso i loro luoghi di detenzione, è circolata largamente anche nei media arabi, nonostante le puerili giustificazioni di Hamas (“non sono nostri, Israele sta deportando dei civili”). Sono anche emersi conflitti fra la popolazione e l’organizzazione terroristica, che si impadronisce sistematicamente degli aiuti umanitari per destinarli ai propri miliziani invece che alla gente che ha perso la casa e ha dovuto spostarsi per colpa loro.

     

    Il ruolo dell’Unrwa

    La popolazione ha dato in un paio di occasioni anche l’assalto ai magazzini dell’Unrwa, dove erano custodite risorse alimentari non distribuite e forse destinate anch’esse a Hamas. Il ruolo ambiguo di questa organizzazione dell’Onu che in sostanza funziona come ministero del welfare e dell’istruzione di Hamas è emerso anche dalle scoperte fatte dai militari israeliani durante il lavoro di ripulitura dei centri conquistati: tunnel che partivano proprio dalle scuole dell’Unrwa, cecchini appostati nelle aule, armi e altri materiali militari nascosti in sacche con il marchio della stessa organizzazione, terroristi abbattuti che avevano al collo il badge di suoi dipendenti. Per non parlare di quell’insegnante dell’Unrwa che ha fatto il carceriere a un rapito, come egli stesso ha raccontato dopo la liberazione. Per nessuna di queste evidenti dimostrazioni di coinvolgimento nel terrorismo l’agenzia dell’Onu ha chiesto scusa. Questa complicità si incrocia la tattica dei terroristi di tentare di confondersi in mezzo alla gente: c’è abbondante documentazione visiva che dimostra come durante i combattimenti essi non indossino divise o segni di riconoscimento, che sparino dalle case di abitazione, che nascondano fucili e munizioni e razzi nei lettini e perfino negli orsacchiotti dei bambini. Quella in cui è impegnato l’esercito israeliano è un’operazione difficile e lenta, che per arrivare al suo scopo ha bisogno, secondo fonti dello stato maggiore, probabilmente di un altro paio di mesi. Salvo che le cose si complichino al Nord, dove la guerra con Hezbollah è sempre possibile.

     

    Il voto all’Onu

    Ma non è detto che questo tempo ci sia. Sul fronte diplomatico l’avvenimento più importante degli ultimi giorni è stata la votazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu di una mozione promossa dagli Emirati Arabi (sì, lo Stato che ha un rapporto importante con Israele negli “Accordi di Abramo”) e firmata da un’ottantina di paesi, che chiedeva la fine immediata dell’offensiva israeliana. Quel che conta però è il Consiglio di sicurezza coi suoi quindici membri, in parte permanenti, in parte eletti a turno, i quali hanno il potere di prendere decisioni esecutive, imponendo anche sanzioni e perfino schierando truppe. Qui la mozione, appoggiata dal segretario generale Guterres, è stata votata da Cina e Russia e Francia fra i membri permanenti e anche da stati occidentali come la Svizzera fra gli eletti. La Gran Bretagna si è astenuta. Vi sarebbe stata dunque una larga maggioranza contro Israele, se non fosse stato per il veto americano che ha bloccato la procedura.

     

    I difficili rapporti con gli Usa

    Su questo veto c’era stato un po’ di suspense, perché il segretario di stato americano Blinken aveva dichiarato pubblicamente che gli Usa non l’avrebbero usato se Israele non si fosse impegnato a limitare i danni alla popolazione civile e a far entrare maggiori soccorsi a Gaza. Il che è paradossale, perché gli Usa sanno benissimo che i rifornimenti a Gaza vanno per lo più a sostenere lo sforzo militare di Hamas e non alla gente comune e che i terroristi si mescolano alla popolazione usandola come scudi umani, rendendo impossibile combatterli se non a costo di qualche perdita civile. Gli Usa inoltre hanno più volte dichiarato che solo la distruzione totale delle organizzazioni terroristiche può riportare la tranquillità nella regione. Ma per ragioni ideologiche e anche per tener conto della forte pressione dell’ala sinistra del partito democratico e di molte forze intellettuali e dei media americani, impongono a Israele vincoli molto forti nella sua azione. Vi è dunque una tensione sotterranea fra Usa e Israele, com’è sempre successo per tutte le guerre che lo stato ebraico ha dovuto sostenere. In sostanza gli Stati Uniti vogliono sì che Israele viva e stia sicuro, ma temono che se “vincesse troppo” la loro politica internazionale ne sarebbe danneggiata. Di conseguenza i rifornimenti di armi da cui Israele dipende arrivano sì, ma qualche volta solo in parte o con ritardo; e i voti all’Onu sono sempre dati (solo Obama ruppe questa regola, astenendosi su una risoluzione importante alla vigilia della fine della presidenza), ma sempre con qualche condizione aggiunta. È una politica che risale alle origini dello Stato Ebraico e che ha anche condizionato il modo di vedere dei vertici istituzionali e dei servizi e buona parte anche di quelli politici, a cercare sempre compromessi coi nemici, invece di annientarli; perché si sa che questa è la volontà americana.

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