Si chiama “principio di precauzione”. È quella norma
del diritto internazionale umanitario che impone alle parti coinvolte in un
conflitto di prendere le misure necessarie per proteggere i civili, allo scopo
di ridurre al minimo i danni e le vittime. Tra le azioni richieste c’è
l’avviso, con adeguato anticipo e in modo efficace, ai civili presenti nella
zona di un possibile attacco.
Non basta, ovviamente, attuare il “principio di
precauzione” per evitare morti e feriti. “Sai, non siamo felici di distruggere
o di uccidere – ha detto a Shalom Ido, un sergente riservista in servizio del
454esimo reggimento di artiglieria “Tabor”, di stanza a nord est della Striscia
di Gaza, molto vicino alla barriera di separazione – o di rendere la loro vita
(dei palestinesi, ndr) miserabile. Vogliamo solo garantire la sicurezza alle
nostre truppe. E vogliamo indietro i nostri ostaggi”. Quando il suo compagno
Matan sente accusare l’esercito di Israele di stragi di bambini e civili nella
Striscia, scuote i ricci che ha in testa: “Cerchiamo di non fare del male a
nessun civile e di colpire solo i terroristi. Tsahal ha chiesto ai residenti di
Gaza di evacuare. Ma è di pubblico dominio il fatto che Hamas abbia bloccato
loro la strada”. E poi aggiunge: “Siamo in guerra. Una guerra che non abbiamo
iniziato noi”.
A raccontare che l’esercito mette in pratica il
“principio di precauzione” non sono solo fonti israeliane. Sono diversi i
racconti dei palestinesi dentro Gaza che forniscono dettagli di come questi
avvisi siano stati recapitati, con ogni mezzo possibile.
L’ha raccontato il corrispondente dell’Ansa a Gaza,
Sami al-Ajrami: “Una telefonata insistente, alle 2 della notte fra giovedì 12
ottobre e venerdì 13 ottobre, ha stravolto le vite di centinaia di migliaia di
palestinesi, cambiando il loro destino, forse per sempre. Sui cellulari è
comparso un messaggio perentorio: “Qui le forze di difesa di Israele.
Dovete lasciare le vostre abitazioni e passare oltre il Wadi Gaza, nel centro
della Striscia. Il posto dove vi trovate attualmente è zona di attività
militare. Per proteggere voi stessi e le vostre famiglie, dovete passare a
sud!”. È andata proprio così a Mukhaimar Abu Saada, venerdì 13 ottobre. Il
docente di scienze politiche alla Al-Azhar University di Gaza ha raccontato a
La Stampa, che quello è stato l’ultimo venerdì che lui e la sua famiglia hanno
trascorso nel loro appartamento al quinto piano di un elegante condominio a
Rimal, quartiere residenziale di Gaza City: “Ho lasciato casa subito. Non si
scherza con l’esercito israeliano”.
L’ha spiegato anche il dentista Mahmoud Shaheen alla
BCC. Nel suo caso, a recapitare il messaggio è stato, giovedì 19 ottobre, un
agente dell’intelligence israeliana che si è identificato come Abu Khaled, con
una telefonata all’alba in cui lo avvertiva che avrebbero attaccato la sua
zona, al-Zahra, un’area borghese nel nord della Striscia, nel giro di due ore.
“Bombarderemo tre edifici”, ha detto la voce in un arabo impeccabile,
“dovete evacuare la zona circostante”.
Oltre ai messaggi via telefono, sono arrivati i
volantini lasciati piovere dal cielo da un drone e gli annunci via social
media.
È chiaro che quelle telefonate e quei messaggi da un
lato salvano la vita e dall’altra la sconvolgono e la gettano nel caos. Così
come è comprensibile che di fronte all’imprevedibilità della guerra e in
condizioni di difficoltà e povertà, la scelta di evacuare non sia sempre
percorribile.
Cosa che Israele tiene in considerazione. Racconta
il portavoce militare Richard Hecht che il tenente colonnello “A”, un
navigatore dell’aeronautica militare, ha descritto come gli attacchi aerei
possono essere annullati fino all’ultimo istante, dalla cabina di pilotaggio.
“Continuamente quando siamo in aria, cerchiamo di capire se dobbiamo fermarci”.
L’alt, racconta, può provenire da qualcuno che sta guardando il bersaglio, sia
esso un drone o un aereo con equipaggio. “Se qualcuno vede qualcosa, chiama
immediatamente per dire: interrompi! interrompere! interrompere!”.
Hecht precisa che “la nostra guerra non è contro la
popolazione di Gaza. Stiamo facendo tutto il possibile per aprire corridoi di
evacuazione affinché possano spostarsi a sud”. E rileva il contrasto con la
tattica di Hamas, di “radicarsi nella popolazione civile, con tunnel sotto le
case e lanciarazzi vicino alle moschee”, questo sì in violazione del “principio
di precauzione”, che si raccomanda anche di evitare di collocare obiettivi
militari vicino ad aree densamente abitate.
Al sergente Ido, dal campo di battaglia vicino alla
Striscia, non resta che alzare le braccia e ammettere: “C’è un limite a quanto
possiamo fare per prenderci cura di loro e per provare ad aiutarli a salvare se
stessi. Non c’è molto altro, oltre a quello che abbiamo già fatto”.