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    Che cosa cambia nella strategia del Medio Oriente con l’aggressione di Hezbollah. Intervista a Danny Orbach

    Per avere uno sguardo approfondito e competente sulla situazione strategica di Israele Shalom ha sentito il prof. Danny Orbach, storico militare dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Orbach  si è laureato in Storia presso l’Università di Tel Aviv e ha conseguito il Ph.D. in Storia a Harvard. Ha pubblicato lavori sulla storia tedesca, giapponese, cinese, israeliana e mediorientale, concentrandosi particolarmente sui temi legati alla resistenza militare, alla disobbedienza civile, alle ribellioni e agli omicidi politici. Presso Bollati Boringhieri è uscito Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer (2016).

     

    Professor Orbach, come vede la situazione militare di Israele in questo momento?

    Bisogna partire dal fatto che il panorama del Medio Oriente è molto cambiato dopo il tentato genocidio compiuto nei giorni scorsi da Hamas. Bisogna chiamarlo proprio così, genocidio, perché questa è la sua natura. Ora Israele non può più pensare di convivere con Hamas, come si illudeva di poter fare. Non possiamo più avere a fianco un regime genocida, dobbiamo eliminarlo. Oggi il nostro compito è questo e Israele sta lavorando per questo scopo. Ma dobbiamo tener presente che non c’è solo la striscia di Gaza. Abbiamo a nord Hezbollah, che è meglio armato e organizzato di Hamas. Dobbiamo cercare di evitare che si apra un secondo fronte dal Libano e che altri israeliani siano massacrati. Sarebbe un altro shock intollerabile. E dobbiamo stare attenti alla Siria, alle organizzazioni terroristiche nei territori dell’Autorità Palestinese, alla possibilità di sommosse da parte degli estremisti fra gli Arabi Israeliani. Per fortuna per il momento non ci sono segnali di attività di questi possibili fronti. Si sono viste al contrario manifestazione di simpatia degli arabi israeliani nei confronti delle nostre forze armate, forse anche perché fra le vittime di Hamas vi sono diversi arabi. Il singolo fattore più importante però è stata la scelta del Presidente Biden di darci concretamente appoggio con una portaerei nelle nostre acque, che rende concreto il suo ammonimento a Siria e Hezbollah perché non si uniscano all’aggressione. Io credo che nei prossimi anni ci dovranno essere in Israele strade e piazze dedicate a Biden.

     

    Torniamo allo scontro con Hamas. Che cosa farà ora Israele? Deve entrare a Gaza?

    Non possiamo convivere con Hamas, non possiamo permettere che l’organizzazione continui a controllare Gaza. Per ottenere questo scopo i bombardamenti non bastano. Dobbiamo entrare a Gaza e tenerla per un po’. Naturalmente chi ha programmato l’aggressione sapeva benissimo che avremmo dovuto reagire in questo modo e ha certamente preparato delle sorprese contro i nostri soldati. Non è mio compito dire come, ma io credo che noi dobbiamo entrare a Gaza evitando questa trappola, dobbiamo essere capaci di sorprenderli a nostra volta. Per ora è importantissimo l’assedio totale di Gaza che è stato proclamato. Non deve entrare a Gaza elettricità, carburante, cibo, acqua. Questo ci consente di fare su Hamas maggior pressione di quella che infligge a noi. Ci saranno forti pressioni per allentare il blocco, si invocheranno ragioni umanitarie. Hamas si riserva il diritto di ammazzare tutti i civili che trova, ma poi si nasconde dietro ai suoi civili e avanza ragioni umanitarie. Voglio dire ai lettori di Shalom, possibilmente a tutti gli italiani e agli europei che bisogna resistere a questi tentativi di sfruttare le ragioni umanitarie, bisogna tenere la pressione su Hamas. Questo è oggi il compito degli amici di Israele e di chi ha capito che cos’è accaduto.

     

    Questo quadro mostra un rovesciamento della strategia israeliana nei confronti di Hamas?

    Sì. Per molto tempo noi abbiamo pensato che la presenza di Hamas a Gaza fosse un vantaggio, perché divideva il fronte palestinese e lo indeboliva. Ci siamo illusi che Hamas potesse essere un pericolo minore, con cui si poteva trattare e fare compromessi. Oggi questa strategia è crollata. Non possiamo più accettare l’esistenza di Hamas e distruggeremo l’organizzazione. Ciò comporta in prospettiva una riunificazione dei palestinesi, il che da un lato è una buona notizia per loro, dall’altro una cattiva, perché anche chi è moderato come me non potrà più accettare che i palestinesi abbiano autogoverno senza controllo e responsabilità. Dovremo impegnarci a rifondare una leadership accettabile per tutta la popolazione palestinese. Per farlo non dobbiamo farci prendere dal feticismo delle elezioni. Abbiamo visto che Hamas ha preso potere proprio dalle sole elezioni tenute dall’Autorità Palestinese, una ventina d’anni fa. Bisogna che nasca una leadership capace di garantire innanzitutto legge e ordine, la fine del terrorismo, una crescita economica e che vada verso la democrazia prendendo il tempo che ci vuole. 

     

    Ma l’Iran accetterà questi sviluppi? Non ha previsto di intervenire o almeno di coinvolgere Hezbollah?

    Non lo sappiamo. Secondo me il loro piano è costruito in modo da adattarsi alle circostanze. Se vedranno una possibilità di successo, se saremo deboli, interverranno. Se manterremo la nostra deterrenza resteranno fermi. Per questa ragione l’intervento americano è importantissimo.

     

    Alcuni vedono dietro l’Iran la mano della Russia e parlano di una possibile guerra mondiale.

    Le guerre mondiali non nascono come tali. Quando nel 1939 la Germania nazista invase la Polonia e fu contrastata da Francia e Inghilterra quella era una guerra locale, europea. Nel 1941 il conflitto europeo si allargò a Est all’Unione Sovietica e si fuse con quello fra Usa e Giappone. Allora diventò mondiale. Oggi è lo stesso, abbiamo una guerra per ora fredda fra Cina e Taiwan, una calda con l’invasione russa dell’Ucraina e una a lungo controllata che è esplosa in questi giorni in Medio Oriente. Il rischio che si uniscano in una grande fiammata c’è. E l’elemento che può unificarle è l’Iran.

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