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    Pubblicata la traduzione del trattato "Mo’èd Qatàn" del Talmud

    È da pochi giorni uscito in libreria per la Casa Editrice Giuntina il nuovo trattato del Talmud Babilonese “Mo’èd Qatàn”, tradotto in italiano con “Giorno semifestivo”. Il Progetto Talmud che sta portando avanti l’intera traduzione del Talmud arriva con questo volume al nono trattato pubblicato. Di seguito pubblichiamo l’introduzione del curatore rav Michael Ascoli.

     

    Mo‘èd Qatàn, l’espressione che dà il titolo al nostro trattato, significa “piccola festa” o “piccolo tempo stabilito”. Si tratta dei giorni centrali delle feste di Pèsach e Sukkòt, che durano rispettivamente sette e otto giorni (otto e nove nella Diaspora, includendo qui Sheminì ‘Atzèret all’interno di Sukkòt), dei quali il primo e l’ultimo (o, nella  Diaspora, i primi due e gli ultimi due) sono di festa solenne (Yom Tov); i restanti giorni delle due festività vanno sotto il nome di chol haMo‘èd (lett. “profano della festa”), in italiano frequentemente indicati anche con l’espressione “mezza festa”. Le locuzioni stesse Mo‘èd Qatàn e chol haMo‘èd indicano il carattere ambivalente di questi giorni: nel primo caso “tempo stabilito”, quindi festivo, ma “piccolo”; nel secondo caso giorno comune o “profano” (chol) per alcuni versi e “di festa” per altri. In questo periodo intermedio delle festività di Pèsach e Sukkòt è richiesto un equilibrio fra gli elementi che devono caratterizzare la festa e le esigenze della quotidianità. Nel cercare di stabilire quali attività lavorative siano permesse e quali no, il Talmud arriva alla conclusione che proprio ai Maestri è stato dato il compito d sancire cosa sia lecito e cosa no. Non c’è dunque corrispondenza sistematica con le melakhòt (opere creative) che è proibito compiere di Shabbàt. Nemmeno si può dire che vi sia un diverso livello di intensità delle stesse, cioè che i divieti di chol haMo‘èd possano ricondursi, pur con delle facilitazioni, alle stesse melakhòt di Shabbàt. Non è così, dato che di chol haMo‘èd alcune melakhòt sono vietate, come lo scrivere, mentre altre sono permesse, come l’accendere il fuoco. Un criterio è rintracciabile nella prescrizione di evitare di a#aticarsi eccessivamente di chol haMo‘èd, cosa che potrebbe andare a detrimento della gioia, che in quei giorni deve invece essere pervasiva. Altra di#erenza importante tra Shabbàt e i giorni di festa da una parte e chol haMo‘èd dall’altra è che i divieti vigenti in questo secondo caso non sono assoluti: opere a beneficio della collettività, circostanze di convenienza, occasioni che non si ripetono, situazioni di grande necessità possono costituire motivo di deroga ai divieti di chol haMo‘èd, mentre non sarebbe la stessa cosa per lo Shabbàt. L’esigenza di trovare un equilibrio fra cose permesse e cose vietate nei giorni di mezza festa porta anche a limitare fortemente l’attività lavorativa in senso lato. I commentatori discutono se la proibizione di compiere melakhòt nei giorni di mezza festa sia di origine biblica o rabbinica. Anche chi sostiene che la base della regola sia di istituzione biblica concorda comunque sul fatto che i dettagli applicativi sono di origine rabbinica.

    Il trattato è denso di brani normativi mentre sono sporadici quelli aggadici. In modo apparentemente paradossale, il trattato Mo‘èd Qatàn tratta abbondantemente di regole legate al lutto. L’argomento appare già nel cap. 1, quando si discute di tombe e sepolture, e diventa rilevante nel secondo capitolo proprio per una certa corrispondenza fra le attività che è vietato svolgere di chol haMo‘èd e quelle vietate nei primi sette giorni di lutto; diventa infine preponderante e quasi esclusivo nel terzo e ultimo capitolo del trattato (a partire cioè dalla fine di p. 14a), che da quel punto in poi non tratta più dei giorni di chol haMo‘èd. Ecco così che tale argomento, richiamato per un qualche collegamento con il tema principe del trattato, diviene il soggetto di metà del trattato stesso. È interessante notare al riguardo che il lutto, almeno nella sua forma più stretta, quella che ha luogo nei primi sette giorni, è incompatibile con la festa e quindi non ha luogo durante chol haMo‘èd: se il lutto è iniziato prima della festa, l’avvento della festa lo annulla; altrimenti, ad esempio nel caso di una persona che venga a mancare durante la festa, inizia soltanto a festa stessa terminata. Un’altra corrispondenza fra regole del lutto e regole relative a chol haMo‘èd consiste nel fatto che che in entrambi i casi si tratta di norme che sono completamente di istituzione rabbinica o che almeno, anche nell’opinione di chi ne sostiene un’origine biblica, sono di istituzione rabbinica tutti i dettagli delle regole che governano queste circostanze.

    Ciò può anche spiegare quella maggiore possibilità di deroghe rispetto alle norme esposta sopra a proposito di chol haMo‘èd e che si applica anche alle regole del lutto.

    Il trattato di Mo‘èd Qatàn è breve, essendo com posto da 28 dappìm in tutto, e è diviso in tre capitoli. Il primo di essi ha come argomento principale le attività proibite e permesse di chol haMo‘èd. Vi si tratta principalmente di irrigazione e di vari tipi lavori agricoli, e nella parte iniziale del capitolo vengono delineati alcuni paralleli con le regole concernenti l’anno sabbatico. En passant abbiamo così un interessante panorama sull’agricoltura e l’artigianato dell’epoca. Il secondo capitolo, molto breve, tratta di attività altrimenti proibite di chol haMo‘èd che è invece consentito svolgere in caso il loro mancato compimento comporti una forte perdita economica.

    Si ravvisa il concetto della necessità di concludere lavori già iniziati, laddove ci sia il rischio di danni economici. Qui iniziano a essere tracciate analogie con le regole del lutto, che proseguiranno nel terzo e ultimo capitolo, che per lunghezza costituisce la metà del trattato, e del quale tali regole costituiscono l’argomento principale. Quasi come corollario, compaiono norme relative alla scomunica e alla tzarà‘at. Occorre segnalare che il commento di Rashì al nostro trattato stampato nelle edizioni tradizionali e riportato anche nella nostra non è in realtà attribuibile al grande commentatore, se non in piccola parte. Esso è piuttosto da attribuirsi a Rabbènu Ghereshòm Meòr haGolà, vissuto una generazione prima, con alcune aggiunte effettivamente tratte dal commento di Rashì. A questa conclusione gli studiosi sono giunti già da secoli, mentre la ricostruzione del commento autentico di Rashì al trattato Mo‘èd Qatàn tramite gli antichi manoscritti è ancora oggi oggetto di studio. Nelle note alla nostra traduzione abbiamo scritto indistintamente “Rashì”, limitandoci ad aggiungere la segnalazione “manoscritto” solo nei rari casi in cui Rashì stesso riporti più spiegazioni o qualora il commento riportato nei manoscritti sia diverso da quello presente nelle edizioni a stampa. Tipicamente, i Maestri scelgono di concludere i trattati con parole benauguranti.

    Ecco così che Mo‘èd Qatàn si chiude con una divagazione sulle formule di commiato appropriate e su quelle che non lo sono, per poi finire con una curiosa quanto significativa interpretazione del versetto dei Salmi “Essi passano di forza in forza” (Sal. 84:8): i Maestri non hanno riposo neanche nel mondo futuro, il “godere della gloria divina” è dinamico piuttosto che statico.

     

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