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    ‘’Rapito’’, la storia del piccolo Edgardo Mortara sequestrato dal Papa Re. Ne parliamo con il regista Marco Bellocchio

    C’è la Bologna della famiglia Mortara prigioniera della speranza, c’è la Roma del Papa, Re ancora per poco, dove i bambini ebrei convertiti vengono “rieducati” a forza al cristianesimo, sullo sfondo di un secolo di transizione tra antico regime ed emancipazione. Poi i simboli, quelli ebraici e quelli cristiani, che si alternano sullo schermo in una lotta di identità, tra chi è sopraffatto e vuole giustizia e chi non vede salvezza fuori dalla chiesa. E c’è un bambino ebreo: Edgardo. 

    Marco Bellocchio nel suo “Rapito” parte da lì, dallo sguardo sul bambino, immaginando la solitudine, il buio, la disperazione e tessendo una narrazione potentissima sulla storia di Edgardo Mortara, battezzato segretamente e nel 1858 strappato alla famiglia dai gendarmi di Papa Pio IX per essere poi educato da cristiano. Un’azione drammatica che diventa la molla di un film avvincente.

    Nelle due ore di “Rapito”, in concorso al Festival di Cannes, Bellocchio restituisce la verità di un fatto realmente accaduto attraverso la lente di chi sa guardare oltre il folto delle sentenze e delle interpretazioni della storia; trova i punti dove sintetizzare, in una vicenda così complessa, ben documentata e dove i dettagli sono fondamentali, per racchiuderne anche i rivoli. “Non è un film ideologico, né una condanna. – spiega Bellocchio in una conversazione con Shalom– La violenza in questa storia c’è stata, è evidente. “Rapito” racconta un fatto”.

     

    Per molto tempo, Steven Spielberg ha pensato di fare un film sulla storia di Edgardo Mortara, poi ha rinunciato, e alla fine lei l’ha fatto. Com’è nata questa decisione?

    La storia di Edgardo Mortara mi ha sempre affascinato: la vicenda di un bambino ebreo rapito, portato a Roma per essere rieducato, poiché battezzato clandestinamente, colpisce l’immaginazione. Il cambiamento di Edgardo, la forzatura, la solitudine, il buio, l’accettare un’altra religione per sopravvivere sono aspetti che mi hanno attratto, non immaginavo potessero accadere cose del genere. Per un lungo periodo ho accantonato questa idea perché sapevo che Steven Spielberg voleva farne un film, quando poi ha rinunciato, l’ho fatto io. Sicuramente Spielberg lo avrebbe fatto in lingua inglese, ma la verità va cercata anche nel linguaggio. I protagonisti di questa storia parlano italiano. C’è l’Italia, le nostre abitudini, la storia del Paese, Bologna, Roma, insomma un territorio culturale in cui ci orientiamo meglio. 

     

    Lei da bambino ha avuto un’educazione cattolica. Come guarda all’infanzia di Edgardo?

    Quando avevo sei anni non potevo essere tanto diverso da Edgardo, anche se ricevevo una formazione rigidamente cattolica. La mia esperienza umana nel film è riferita al bambino. Era fondamentale però raccontare la vita della famiglia Mortara e di quanto questa fosse radicata nell’ebraismo. Abbiamo dunque consultato studiosi ed esperti per rappresentare rituali, preghiere, abitudini e consuetudini ebraiche. Lo abbiamo fatto meglio che potevamo, perché lo sentivamo come un obbligo per il risultato artistico e perché, in termini cinematografici, tutto questo riempiva emotivamente la scena. 

     

    In “Rapito” c’è la presenza quasi costante di simboli religiosi. Che peso e quale significato hanno?

    Sono molto importanti. I simboli, come la mezuzah, servono per delineare e sottolineare le identità, per raccontare il rapporto della famiglia Mortara con l’ebraismo. Nell’arte delle immagini, il simbolo non è un arredo, ma ha un peso significativo. In “Rapito” ricorre la mezuzah, che sta sullo stipite del portone di casa dei Mortara, e che Edgardo tiene con sé persino quando diventa diacono. 

     

    Tra i simboli c’è il crocifisso, che appare in sogno ad Edgardo. Cosa intendeva esprimere con questa rappresentazione onirica?

    L’episodio del sogno avviene dopo una crisi. Per la prima volta dopo il rapimento, nella casa dei Catecumeni, Edgardo ha incontrato il padre e la madre, cui è stato concesso il permesso di vedere il figlio. Il bambino cerca di essere ubbidiente e di seguire le indicazioni che gli ha dato il rettore, però non ce la fa, esplode in un pianto disperato perché ritrova il suo mondo e la sua mamma. Quando Edgardo viene portato via a forza dalla madre e rimesso a letto, il sogno diventa l’ingenuità di bambino di voler conciliare le sue origini con la religione impostagli. Quindi stacca i chiodi dalla croce, liberando Gesù: per lui è come liberare se stesso e il suo popolo dalla storia dell’accusa di deicidio che gli è stata raccontata subito dopo il rapimento. È un sogno, una scena di conciliazione, in cui Edgardo esprime il desiderio di trovare la pace e rivedere i suoi genitori.

     

    Nel film, la narrazione procede in modo accurato dal punto di vista storico. Una scena molto peculiare è quella in cui i rappresentati della comunità ebraica vanno da Pio IX e chiedono la restituzione di Edgardo, un dialogo che sembra sintetizzare le vessazioni perpetrate dal Papa agli ebrei. C’era da parte sua la consapevolezza di questo?

    È una scena storicamente vera. Gli ebrei andavano a chiedere benevolenza, di essere protetti, perché subivano violenze, anche fisiche. Il papa è particolarmente inferocito perché sospetta che gli ebrei abbiano tentato di riprendersi il bambino, così li minaccia di rimetterli nel ghetto. E loro, prima di andarsene, come era usanza, baciano la pantofola del Papa. 

     

    Lei dipinge Papa Pio IX come una figura complessa: un uomo spietato a tratti macchiettistico. Perché?

    Il rapimento di Edgardo ebbe un’eco internazionale, come negli Stati Uniti e in Inghilterra. I giornali pubblicarono vignette e caricature di Pio IX in una specie di controcampo del mondo intero. In una di queste, si raffigura l’allucinazione del Papa di essere circonciso da alcuni ebrei penetrati nel Vaticano. Lo rappresentiamo nella forma del sogno.

     

    Un sogno che riassume paranoie e secoli di stereotipi sul mondo ebraico…

    Il Papa reagiva in maniera furiosa anche perché si rendeva conto che il suo potere temporale stava crollando. Per il Risorgimento italiano, il caso Mortara ha favorito la presa di Roma, ne è stato un detonatore.

     

    Il film dà molta più rilevanza all’eco internazionale, meno a quello italiano. Eppure, il caso di Edgardo fa tutto quel rumore perché avviene in pieno Risorgimento e ne diventa una bandiera. 

    Abbiamo fatto una scelta, quella di marcare l’eco internazionale per sintetizzare. Quando si decide di raccontare in un film una vicenda così vasta e complessa, bisogna fare molte scelte. 

     

    Quando a Bologna si tiene il processo a Feletti, l’inquisitore che ha fatto rapire Edgardo, siamo già nel Regno d’Italia. Qui il film riesce a raccontare, assieme alla vicenda umana, come il caso Mortara sia stato uno strumento di battaglia contro il potere del Papa.

    Sì, con una contraddizione: Bologna è ormai italiana, ma Feletti, l’ex inquisitore viene assolto perché a suo tempo ha applicato la legge in vigore, quella papalina. Quel processo resta, però, una pietra miliare perché per la prima volta un membro del Sant’Uffizio finisce sul banco degli imputati in Italia. 

     

    Ai genitori però non interessa scrivere la storia, ma avere indietro il figlio. La vicenda di Edgardo Mortara rappresenta da sempre una ferita molto profonda nella storia ebraica, come gli altri casi di battesimi forzati e clandestini. Pensa che il suo film possa contribuire a raccontare e far conoscere al pubblico questo fatto storico? 

    Noi ci siamo mossi con una buona libertà e con una sana incoscienza. Abbiamo raccontato questa storia non in maniera ideologica, non con l’intenzione di mostrare tutte le ingiustizie che ha subito il popolo ebraico, quello è un aspetto implicito che c’è nel racconto. Il rapimento violento di un bambino derivava da una logica, il Papa agiva con coerenza: se un bambino è cristiano perché è stato battezzato deve essere cristianizzato, anche con la violenza di un rapimento. Non sappiamo, però, perché Edgardo nel corso della sua vita non si sia ribellato. 

    Forse agisce così per sopravvivere: è un processo che in un bambino ha la sua complessità e il suo mistero.

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