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    Il bambino di Varsavia: una foto, tanti significati

    È un’immagine ricorrente, simbolica, rappresentativa della Shoah. È la foto del bambino con le braccia alzate, effettuata durante il rastrellamento degli ebrei del ghetto di Varsavia, prima della deportazione nei campi di sterminio. Dietro a quest’immagine vi è una storia complessa, che ha stimolato anche alcune riflessioni storiografiche, come il libro di Frédéric Rousseau (Il bambino di Varsavia. Storia di una fotografia, Roma-Bari, Laterza, 2011). Non fu uno scatto isolato, ma apparteneva al rapporto Stroop, intitolato “Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia”, che doveva far notare la risolutezza della repressione della rivolta dell’aprile-maggio ’43. Nella parte introduttiva le foto illustravano alcune operazioni preliminari, cui seguivano scene di evacuazione. La seconda sequenza aveva il compito di mostrare i combattimenti dei soldati tedeschi contro gli insorti, denominati “banditi”. Qua rientra anche l’immagine del bambino, scelta per veicolare il messaggio della supremazia nazista sugli ebrei. Anche la didascalia (“Estratti a forza dai bunker”) aveva l’intento di evidenziare l’intervento tedesco contro un’improbabile resistenza dei civili inermi contro i militari. Il rapporto Stroop fu presentato al processo di Norimberga, ma la foto in questione non fu ritenuta degna di nota. Iniziava così un periodo di oblio, in cui prevaleva la narrazione della resistenza, che non poteva essere personificata dal bambino.

    La svolta avvenne all’inizio degli anni ’60, a partire dal processo Eichmann. Inoltre, la Guerra dei sei giorni del ’67 e quella del Kippur del ’73 mostrarono una solidarietà sempre più incerta verso gli ebrei e Israele. Questi fattori portarono a un nuovo atteggiamento verso la Shoah: le vittime non più concepite come colpevoli di non resistenza, ma come strumento di una presa di coscienza di ciò che era avvenuto. Da qui anche l’attenzione per la foto del bambino: non si è mai identificata con certezza la sua identità, ma ogni elemento permetteva di comunicare la repressione e il genocidio in corso. Braccia alzate, cappello in testa, cappotto abbottonato, calzoncini corti, sguardo impaurito, i fucili puntati contro. La foto moltiplicò le presenze in documentari, mostre, libri di testo, in virtù della sua capacità di comunicare il crimine senza mostrarlo esplicitamente, ma esprimendo il dolore e la paura in un volto innocente.

    La notevole diffusione ha però comportato anche un abuso dell’immagine stessa, spesso utilizzata anche in contesti inappropriati, per denunciare altre tragedie o per proporre l’offensivo paragone tra i rifugiati palestinesi e gli ebrei del ghetto di Varsavia. Questa fotografia ha finito dunque per essere vittima della sua stessa efficacia, ma resta un simbolo iconico di un preciso momento storico, caratterizzato allo stesso tempo dall’eroismo della resistenza e dalla sopraffazione del nazismo.

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