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    Gli ebrei romani che combatterono per lo Stato d’Israele ricordati nella festa di Yom Hatzmaut

    Quest’anno, per i festeggiamenti di Yom Hatzmaut, il Centro di Cultura Ebraica e l’Archivio Storico della Comunità hanno deciso di raccontare una storia, quella dei giovani ebrei romani che andarono in Terra d’Israele per combattere la guerra d’Indipendenza, dando il loro personale contributo alla causa.

    In un video della durata di 7 minuti, realizzato proprio dal Centro di Cultura Ebraica e dall’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, proiettato sulla facciata del palazzo d’angolo tra via Catalana e via  del Portico d’Ottavia in occasione della festa nel quartiere ebraico, è stata evocata e ricostruita la storia di questi ebrei romani partiti volontari per difendere la terra d’Israele.

    È una storia che non tutti conoscono: molte di queste persone, che all’epoca erano poco più che ragazzini, sono rimaste per decenni nell’ombra. Poco se non pochissimo si sapeva di loro. Così abbiamo cominciato a scavare nel passato, ricomponendo quelle reti parentali che ci hanno permesso di ottenere preziose informazioni. Figlie e figli, ma anche nipoti, in Italia come in Israele, si sono messi a disposizione per ricostruire storie di dolore, guerra, morte, ma anche di resilienza, solidarietà e soprattutto di sionismo, perché come scrisse Abraham B. Yehoshua: È sionista colui il quale riconosce il principio che lo Stato d’Israele non appartiene solo ai suoi cittadini, ma all’intero popolo ebraico.

    Alcuni di loro si trovavano già nella Palestina mandataria, arrivati in condizioni drammatiche durante o subito dopo la guerra che gli aveva portato via tutto, in primis la famiglia. È il caso di Eugenio Isacco Di Castro che perse due fratelli, uno ucciso alle Fosse Ardeatine, l’altro a Buchenwald con la moglie e le figlie di due e quattro anni. Partì quando aveva appena sedici anni per ricostruirsi una vita. Ma quella terra, che di lì a poco sarebbe diventata, grazie anche al loro contributo, lo Stato d’Israele, andava tutelata e rivendicata a costo della vita. Così si arruolò nel Palmach, la brigata di autodifesa che contava molti altri ebrei romani tra cui Michele Sed o Piazza, detto “Cipolla”, partito subito dopo il rastrellamento del 16 ottobre 1943 in cui venne preso il padre davanti ai suoi occhi, e Pellegrino di Neris, detto “Carnera”, che aveva perso ad Auschwitz il padre e un fratello. Unico sopravvissuto il fratello Raimondo, noto alla comunità come “Zi Raimondo”. Pellegrino partì a bordo della nave Grimaldi nel 1946. Tutti loro vennero reclutati nel 1947, quando gli arabi non accettarono la risoluzione 181 dell’ONU che prevedeva un piano di partizione tra due Stati, e cominciarono ad attaccare i villaggi popolati da ebrei. Si arruolarono per aiutare l’immigrazione clandestina, i sopravvissuti della Shoah, che cercavano di arrivare dal mare nonostante il blocco imposto dagli inglesi, e per combattere le battaglie più cruenti, raccontate dalla penna sapiente del celebre scrittore israeliano Yoram Kaniuk nel suo libro 1948, arruolato anche lui nel Palmach all’età di 17 anni.

    Tra gli scontri più drammatici a cui parteciparono, va ricordata la battaglia di Latrun (25 maggio – 18 luglio 1948), territorio strategico sulla strada per Gerusalemme, rimasta sotto il controllo giordano fino alla Guerra dei sei giorni (1967). Qui perse la vita Sergio Benzion Pavoncello, giunto in Israele nel 1948 insieme al fratello Angelo per arruolarsi volontario. Sono partito per farmi una nuova vita. Faccio il mio dovere di ebreo.Qui mi chiamano Ben Zion, figlio di Sion. Queste parole restituiscono il suo entusiasmo, il forte senso di appartenenza ad un popolo e una nazione, La Terra d’Israele, Eretz Israel, diventerà il Paese più bello del mondo scriveva al padre poco prima di essere ucciso da un proiettile nemico.

    Alla battaglia di Latrun partecipò anche Giuseppe Sonnino, detto “Papone”. Fece l’aliyah nel 1945 entrando nel Kibbutz di Givat Brenner, a sud di Rehovot, co-fondato nel 1928 da Enzo Sereni. Qui iniziò l’addestramento militare per poi arruolarsi nella Brigata Ghivati. Finita la guerra, smantellate le brigate, entrerà nell’Haganà, l’organizzazione militare ebraica. Alla domanda di rito: Dove preferisci andare? Giuseppe rispose: in Marina; così l’ufficiale replicò sorridendo: Quando avremo le navi te lo faremo sapere!

    Ci furono poi alcuni dei nostri ebrei romani che partirono appositamente, con documenti falsi, desiderosi di portare il loro supporto. Il contributo più grande della diaspora alla sopravvivenza dello Stato d’Israele, affermò David Ben Gurion.

    È il caso di Silvano Di Porto che, arrivato clandestinamente, entrò a far parte dell’Irgun Zvai Leumi contribuendo alla liberazione di Beer Sheva e a fermare le truppe egiziane facendo saltare il ponte di Al-Arish; di Angelo Pavoncello, detto “il Modenese” che arrivò in Eretz Israel nel 1948 con passaporto falso olandese a nome di August Paven insieme ad altri romani, tra cui Silvano Di Porto e Davide Di Segni (“Davidino il matto”). Minorenne, Angelo mentì sull’età per essere arruolato negli Irgun Tzvai Leumi (Organizzazione Militare Nazionale) dove venne chiamato “Malachi” (Angioletto). Inseguito entrò nel Palmach facendo varie battaglie tra cui Latrun e Beer Sheva. Tornato dopo la guerra in Italia venne processato a Genova perché aveva combattuto clandestinamente per un altro Paese. Graziano Terracina invece si imbarcò insieme a David Pavoncello e Franco Veneziano sulla nave Hatzmaut che portava clandestinamente anche giovani ebrei con esperienze militari. Arruolato nel Palmach, rimase ferito nella battaglia ad Al Faluja. Ristabilitosi, prese parte ad altri scontri a fuoco nel deserto del Negev fino alla liberazione dell’aeroporto di Beer Sheva. Avevamo un fucile ogni tre persone e due erano di legno; il mio era vero, se io fossi morto lo avrebbe preso qualcun altro. Con queste poche parole rilasciate durante un’intervista, Graziano restituisce tutto il dramma di una guerra combattuta con pochissimi mezzi.

    Infine va ricordato Mario Piazza o Sed, detto “Morè Moshè” che partì nell’agosto del 1948 lasciando l’incarico di officiante delle funzioni religiose. Durante uno scontro venne ferito. Tornato a Roma riprese la sua funzione di Rabbino e Manigh dell’Oratorio di Castro.

    Tutti loro erano gli ebrei romani “di ghetto”, come li definisce Arrigo Levi nel suo libro Un Paese non basta quando racconta in prima persona le battaglie che fecero rispondendo con spirito avventuroso alla chiamata alle armi, coscienti del fatto che l’unica sopravvivenza per il popolo d’Israele era la legittimazione della stessa Nazione. 

    L’elenco è molto più lungo rispetto ai nomi sopra citati. A tutti loro, a Sergio Benzion Pavoncello, a Renato Reuven Volterra, ucciso a Bir-Asluj, e a Franco Veneziano che perse la vita duranti i conflitti del 1948, va il nostro ricordo e la nostra riconoscenza.

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