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    Il Ghetto di Varsavia. Una lezione

    Passò un certo tempo dall’invasione della Polonia da parte della Germania nazista (1 settembre 1939) alla decisione di creare, per la popolazione ebraica locale, prigioni a cielo aperto costituite da quartieri recintati da mura o da filo spinato. I ghetti furono istituiti innanzitutto nei territori annessi al Reich della Polonia. Il primo di grandi dimensioni fu creato a Lodz nell’aprile del 1940. 

    Nell’ottobre dello stesso anno fu istituito un gigantesco ghetto a Varsavia, cuore del nuovo distretto tedesco chiamato Governatorato Generale. Il metodo di imprigionare ebrei dentro a quartieri delimitati, guardati dall’esterno e in cui poter controllare la quantità di cibo e medicinali da introdurre, proseguì poi a Cracovia nel marzo 1941, a Lublino nel mese successivo, poi a Radom, Cestokowa, Kielce. Nell’agosto del 1941, il Governatorato Generale si arricchì di un nuovo distretto, la Galizia strappata ai russi e,in dicembre, nella sua capitale Leopoli, fu istituito un nuovo ghetto, il terzo più importante di tutta la Polonia.

    A questo punto, salvo la creazione successiva di ghetti minori, il processo fu portato a termine: gli ebrei in Polonia erano ormai in trappola, senza possibilità di muoversi più. Il concentramento nei ghetti fu una procedura non semplice dal punto di vista dell’organizzazione nazista che dovette prima procedere alla loro identificazione, imporre loro  la restrizione degli spostamenti con appositi decreti, predisporre ad hoc un apparato amministrativo sia tedesco, sia ebraico. Sia detto tra parentesi perché non è l’argomento di questo articolo: in Italia, il regime fascista impose, nell’agosto del 1938, ben prima dell’arrivo degli occupanti tedeschi, una schedatura degli ebrei d’Italia, premessa per ogni forma di persecuzione, anche fisica, dei soggetti censiti. Il fatto facilitò enormemente nel 1943 il loro rintraccio e arresto.

    Ma il meccanismo dei ghetti a che finalità esattamente rispondeva? Come dobbiamo interpretarlo? 

    Il concentramento degli ebrei polacchi nei ghetti risponde al periodo di snodo tra una politica antiebraica e un’altra: inizialmente, l’idea nazista di  liberarsi di loro passava attraverso un programma di emigrazione forzata, mentre in un secondo periodo, si fece strada l’idea di sbarazzarsene tramite assassinio collettivo. Fu proprio nel corso del periodo 1939-1941 infatti che il programma di emigrazione forzata si dissolse progressivamente per lasciare posto alla politica della “Soluzione finale”. La prima ipotesi tramontò anche per il fatto che, mano a mano che la Germania nazista vinceva la sua guerra di conquista a est, incamerava sempre nuovi territori gonfi di popolazione ebraica: un milione e mezzo solo nel Governatorato Generale. La prevista trionfale avanzata tedesca in Russia avrebbe fatto cadere in mani naziste altre migliaia di comunità ebraiche. Come poter pensare di risolvere la “questione ebraica” con l’emigrazione? Gli altri Paesi accettavano con riluttanza l’immigrazione ebraica, ovunque regolata in senso restrittivo e l’ipotesi più probabile fino ad allora accarezzata era di creare una riserva ebraica nell’isola africana del Madagascar da affidare alla sorveglianza e alla gestione della polizia tedesca. Lo scoppio della guerra e l’impossibilità di mandare convogli di navi per il trasferimento  sull’Oceano Atlantico fecero il resto. 

    Nel frattempo, ogni giorno nuovi ebrei venivano obbligati a concentrarsi nei ghetti dalle cittadine vicine creando povertà, fame, sovraffollamento, epidemie. La situazione abitativa, igienica e sociale peggiorava di giorno in giorno. Il ghetto di Varsavia conteneva alla fine del 1942 ormai 500.000 abitanti su un territorio di 3 chilometri quadrati.  Prima dell’estate del 1942 vi erano già decedute di stenti e di malattie 92.000 persone.

    Nel frattempo, il 22 giugno 1941, la Germania aveva aggredito l’Unione Sovietica, l’immenso stato federale comunista sorto nel 1922 sulle ceneri dell’impero russo, mettendo in campo ben 134 Divisioni perfettamente armate. 

    La copiosissima comunità ebraica russa subì una decimazione da parte di truppe scelte che seguivano l’esercito in avanzata, tramite stragi accuratamente preparate. Immense fosse comuni si riempirono presto di corpi ammassati l’uno sull’altro. Il massacro avvenne  lontano da sguardi indiscreti, in territori distanti dalle linee di comunicazione ordinarie, avvolto in un semi-segreto di Stato.

    La lezione servì però ai nazisti. L’assassinio collettivo poteva funzionare. Il metodo per massacrare in massa doveva però cambiare ed essere meccanizzato. Dall’estate del 1942 toccò ai ghetti polacchi subire la “soluzione finale”. Era previsto il loro svuotamento attraverso il trasporto degli abitanti in centri di sterminio, posti a pochi chilometri di distanza, dotati di macchinari che avvelenavano in massa con ossido di carbonio. Come dice il grande storico Raul Hilberg: non erano più gli assassini che andavano verso le vittime, ma erano le vittime stesse che venivano trasportate ai centri di assassinio.

    Il 23 luglio 1942, gli ebrei di Varsavia cominciarono ad essere trasferiti nel centro di sterminio di Treblinka, trasporti in questa direzione partivano quotidianamente.

    Agli inizi del 1943, le poche decine di migliaia di ebrei rimasti decisero di non salire più sui quei treni e rivoltarsi con le poche armi che riuscirono a raccogliere clandestinamente fuori dal ghetto.

    Il 16 febbraio 1943, Himmler ordinò la distruzione totale del ghetto di Varsavia. Il 19 aprile iniziò una vera insurrezione con rudimentali bottiglie Molotov e con qualsiasi arma. Solo il 16 maggio successivo i nazisti riuscirono nel loro intento, dopo che gli ebrei avevano dimostrato, per primi nell’Europa occupata dalla Germania, che la ribellione e la resistenza erano l’unica vera strada possibile per contrastare il nazismo.  Un’indicazione e una lezione per tutti i popoli oppressi.

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