Una vecchia battuta attribuita a Golda Meir lamentava del fatto che di tutto il Medio Oriente, Mosè avesse condotto il popolo ebraico nell’unico fazzoletto di terreno sfornito di risorse petrolifere. Oggi quella battuta non sarebbe più attuale: non si è trovato il petrolio sul territorio di Israele, ma a partire dal 2009 sono stati scoperti nel mare prospiciente diversi giacimenti di gas, che coprono ormai tutto il bisogno energetico del paese e permettono inoltre una cospicua esportazione in Egitto, Giordania e in direzione dell’Europa. Non si tratta semplicemente di una risorsa economica importante in più per l’economia israeliana, ma di un fattore strategico notevole. Che l’approvvigionamento di idrocarburi potesse essere usato come un’arma fu un’invenzione della lega araba, quando in concomitanza con la guerra del Kippur (ottobre 1973), estese il boicottaggio che da sempre aveva usato contro Israele, nell’ambito del rifiuto di ogni rapporto commerciale con lo stato ebraico, a tutti gli stati che avevano relazioni normali con esso, e dunque dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. Ne seguì una crisi economica con un forte aumento dell’inflazione, contrastata con la politica dell’austerità (fra cui le famose domeniche a piedi anche in Italia) che si concluse solo dopo un paio d’anni. Per chi si fosse dimenticato la lezione, la recente aggressione russa all’Ucraina è anch’essa affiancata da parte russa con l’uso dell’arma energetica. Dunque la disponibilità di idrocarburi è un aspetto importante dell’autonomia sostanziale di ogni paese.
Quel che si è scoperto gradualmente negli ultimi due decenni è che i fondali di tutto il Mediterraneo orientale sono ricchi di gas. Si valuta che vi si trovino mille miliardi di metri cubi (una famiglia italiana media consuma oggi meno di 1000 metri cubi l’anno). Poco meno del dieci per cento di queste ricchezze si trova nella zona economica esclusiva che si estende al largo della coste israeliane. Il resto è distribuito fra Egitto, dove vi è il giacimento più vasto di tutti, Libano, Siria, Turchia, Cipro e Grecia. Ma le perforazioni dei pozzi di gas sul fondo marino richiedono tecnologia avanzata e grandi investimenti (il che a sua volta esige tranquillità politica e sociale), sicché oggi Israele è il paese di gran lunga più avanzato dell’area nello sfruttamento di queste risorse. Complessivamente, nei primi sei mesi del 2021 nei giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar sono stati prodotti 10,85 miliardi di metri cubi di gas. A loro volta queste risorse sono però ragione di conflitti. In un mare tutto sommato ristretto come il Mediterraneo le zone economiche esclusive (che secondo le convenzioni internazionali possono estendersi per 200 miglia, oltre 300 chilometri) facilmente si sovrappongono e devono essere definite mediante accordi. Israele l’ha fatto con Cipro, ma ha subito attacchi e minacce dal Libano, in particolare dai terroristi di Hezbollah, fino a un recente accordo patrocinato dagli Stati Uniti e molto discusso nello stato ebraico, perché cede una parte della zona in cambio di compensazioni economiche. Vi è un conflitto aperto su questo tema fra Turchia e Cipro, che essa ha invaso e in parte occupato cinquant’anni fa. Un altro tema di conflitto è il modo di trasportare il gas in Europa, che ne ha bisogno. Israele propone un gasdotto (Eastmed) attraverso Cipro, la Grecia, l’Italia; l’Egitto propende per la liquefazione del gas (che già Israele gli fornisce a questo scopo) e il trasporto via nave. La Turchia vuole che il gasdotto passi attraverso il suo territorio evitando i nemici ciprioti e greci. La speranza è che queste risorse siano ragione di collaborazione e non di guerra e che inoltre esse siano sfruttate con parsimonia ecologica, dato che si tratta di giacimenti grandi ma non infiniti e certamente rinnovabili. Israele lo sa e si comporta di conseguenza.