Skip to main content

Ultimo numero Novembre – Dicembre 2024

Scarica il Lunario 5785

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati







    La marcia su Roma, esito di tensioni e illusioni

    28 ottobre 1922: in tutta Italia migliaia di camicie nere partecipano a un’iniziativa di carattere eversivo per prendere possesso del governo. A guidare lo schieramento, i quadrumviri Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare De Vecchi. È la marcia su Roma, preludio all’ascesa al potere di Benito Mussolini.

    Un’azione che non incontra resistenza: nonostante il capo del Governo Luigi Facta avesse presentato il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, il Re Vittorio Emanuele II si rifiutò di firmarlo, inducendo il Presidente del Consiglio alle dimissioni.

    Le concause che avevano determinato questo scenario affondavano le radici negli anni precedenti, dalla fragile eredità lasciata dalla Prima Guerra Mondiale, cui seguirono crisi economica, tensioni sociali, incapacità politica. Diversi fattori che favorirono l’ascesa del fascismo.

    L’Italia uscita dal conflitto era un Paese con un’industria in crescita, ma con uno sviluppo caratterizzato dalla disomogeneità tra le aree geografiche e un nuovo ceto medio con inedite esigenze. Il quadro sociale inoltre era reso più complesso dalla formazione delle associazioni di ex combattenti, reduci, mutilati, invalidi. Il clima di esaltazione dopo la vittoria nella Grande Guerra alimentava sentimenti nazionalisti, incentivati dal mito della vittoria mutilata e in cerca di un interlocutore politico che li tutelasse. A questi ideali facevano riferimento tanto i futuristi di Filippo Tommaso Marinetti, quanto gli arditi, reduci delle truppe d’assalto. In questo quadro di fermenti sociali, il 23 marzo 1919 a Milano nacquero i fasci di combattimento di Mussolini, all’epoca ex socialista che si era distinto per le sue posizioni interventiste.

    Di fronte a questi sconvolgimenti la vecchia classe liberale faticava a dare risposte concrete. Le difficoltà aumentarono nel 1919-1920, il cosiddetto“biennio rosso”: caratterizzato da una grande mobilitazione operaia, da scioperi nei servizi pubblici e nelle campagne, dalla propaganda rivoluzionaria dei massimalisti. Al Sud, le lotte si trasformarono in occupazioni delle terre da parte dei contadini. Nel 1920 un’ondata di agitazioni in Val Padana portò prefetti e questori a parlare di “carnevale contadino”. Nelle aree industriali del Nord-Ovest gli operai occuparono le fabbriche.

    L’inerzia dei liberali, al governo con il neonato Partito Popolare di ispirazione cattolica, preoccupava proprietari terrieri, industriali e borghesi, tanto più in apprensione dopo la rivoluzione bolscevica in Russia del 1917. Per questo vennero viste di buon occhio le squadre d’azione fasciste che, dalla fine del 1920, intrapresero sistematiche violenze: colpivano le organizzazioni operaie e contadine, devastavano le Camere del lavoro, bastonavano i capi sindacali, saccheggiavano le cooperative. Questo portò al movimento fascista un aumento delle adesioni e delle simpatie, che convinsero Giovanni Giolitti a inserirli nei “blocchi nazionali”, le liste liberali che si presentarono alle elezioni del maggio 1921: secondo l’esperto uomo politico, la parlamentarizzazione dei fascisti avrebbe potuto risolvere numerosi problemi, a partire dalla violenza squadrista. In realtà, per Mussolini fu l’occasione per giocare su due tavoli, quello istituzionale e quello dello squadrismo, vestendo il doppio petto o la camicia nera a seconda dei momenti.

    I 35 deputati fascisti eletti nei blocchi nazionali furono necessari ai liberali per formare una risicata maggioranza alla Camera. Fu un primo importante passo, seguito dalla nascita del Partito Nazionale Fascista nel novembre 1921.

    Il nuovo esecutivo liberale guidato da Facta non riuscì ad arginare le violenze squadriste che si susseguirono nel “biennio nero” 1921-22. L’idea che persisteva nella classe dirigente per quietare le tensioni era quella di offrire a Mussolini un ruolo nell’esecutivo: nei mesi estivi iniziarono le trattative, fino a quando, il 24 ottobre 1922, spinto anche da Michele Bianchi, segretario del PNF, da Napoli Mussolini chiese la presidenza del Consiglio, minacciando la mobilitazione dello squadrismo. Era la pianificazione della marcia su Roma. 

    I quadrumviri si misero alla guida delle colonne di squadristi dirette verso la Capitale, mentre prefetture e stazioni ferroviarie erano occupate dalle camicie nere. Nonostante i proclami e i gesti eclatanti, la mobilitazione era limitata ad alcune migliaia di uomini, non perfettamente equipaggiati, eccetto che per fucili, moschetti e gagliardetti. Uno schieramento che le forze armate avrebbero potuto agevolmente sedare. Ma Vittorio Emanuele III, nonostante la richiesta dello stato d’assedio da parte di Facta, preferì il compromesso col fascismo, nella stessa ottica in cui era avvenuta la prima fase della parlamentarizzazione.

    L’iniziativa fascista incontrò anche l’interesse di alcuni ebrei italiani. A ricevere il brevetto che attestava la partecipazione alla marcia su Roma furono 230 ebrei; al 28 ottobre 1922, inoltre, erano iscritti al PNF (o al partito nazionalista che in esso sarebbe confluito nel marzo 1923) tra 600 e 700. Questi numeri non particolarmente elevati dimostrano come gli ebrei italiani fossero integrati appieno in ogni ambito della società e della vita politica nazionale: non testimoniano infatti una particolare propensione degli ebrei italiani al fascismo, quanto il loro approccio alla vita pubblica basato sulla tendenza a seguire i comportamenti degli altri italiani.

    Il 30 ottobre il re conferiva a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, come se si trattasse di un normale avvicendamento di ministeri. Si legalizzavano due anni di violenze e il partito fascista, pur con solo 35 deputati contro i 123 dei socialisti e i 107 dei popolari, si impose come forza di governo. Mussolini, oltre che Presidente del Consiglio, riservò a sé anche l’interim di Interno ed Esteri. Poi nell’esecutivo vi erano tre fascisti, due militari, due popolari, sei liberali di varie tendenze. Restava una parziale apparenza di coalizione; in realtà, erano le basi per la dittatura e per il periodo più buio della storia italiana.

    CONDIVIDI SU: