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    Sta scoppiando “un’intifada” nell’Autorità Palestinese? Probabilmente no, ecco perché

    I fatti più recenti

     

    Due militari assassinati con spari a tradimento nello scorso weekend. Minacce di morte esplicite ai fedeli che volevano andare a pregare per Sukkot alla Tomba di Giuseppe a Shechem, un pellegrinaggio che è esplicitamente garantito dagli accordi di Oslo; i pochi che sono riusciti ad arrivarci l’hanno fatto solo per la scorta dell’esercito. La scoperta di una cellula terrorista in Samaria legata ad Hamas che progettava attentati clamorosi sotto la guida di Bilal Basharat, un terrorista condannato e scarcerato nello scambio per la liberazione di Gilad Shalit. Un carico di armi di contrabbando sequestrato nella valle del Giordano l’altro ieri. Gravi torbidi nella parte araba di Gerusalemme, soprattutto nei quartieri di Wadi Joz and Ras al-Amud, con lanci di pietre, di bombe molotov e fuochi artificiali usati come armi. Il tentativo di linciaggio di una famiglia ebraica sempre a Gerusalemme a Beit Hanina. La chiusura parziale delle uscite dalla città araba di Nablus, con l’istituzione di posti di blocco che chiedono i documenti e perquisiscono tutti coloro che ne escono. Centinaia di arabi che assaltano e cercando di bruciare l’avamposto Eish Kodesh vicino a Shilo nel territorio di Binjamin, vicino a Gerusalemme. Agguati con sassi alle macchine che entrano al villaggio ebraico di Yitzhar, operati dagli abitanti del vicino villaggio arabo di Huwara, che hanno portato a un confronto fisico generale fra le due popolazioni, sedato a stento dall’esercito. Sono solo alcuni degli episodi più recenti dell’ondata di violenza di cui è protagonista la popolazione araba dei sobborghi di Gerusalemme e della Samaria, la regione a nord della capitale.

     

    Perché le violenze?

     

    È difficile individuare un episodio che abbia fatto da miccia all’incendio. È in corso il ciclo delle feste ebraiche autunnali, che comporta una grande frequenza al Muro Occidentale e un certo numero di pellegrinaggi al Monte del Tempio, alla Tombe dei Patriarchi a Hebron, alla Tomba di Giuseppe a Shehem e a quella di Rachel fuori Betlemme; ma questo accade tutti gli anni. Non vi sono stati all’inizio di questo ciclo particolari momenti di scontri fra comunità e nuovi provvedimenti. Del resto il filo degli attentati continua fra alti e bassi da molti mesi e ha un’unità soprattutto geografica: la maggior parte dei terroristi attivi in questa lunga ondata viene da Jenin e Shechem (in arabo Nablus); se ci si aggiungono i sobborghi arabi di Gerusalemme e un paio di altri luoghi abbiamo definito la provenienza di tre quarti degli attentatori. Il meccanismo della violenza spesso si auto-perpetua: da una località parte un attentatore, le forze di sicurezza vengono ad arrestare complici e mandanti, essi e il loro ambiente resistono con le armi all’arresto, sono feriti o eliminati, parte un altro attentato e il meccanismo riparte. Bisogna aggiungere che questi luoghi sono lasciati in uno stato di anarchia, con frequenti scontri tribali o fra gruppi criminali. Il che non significa che non ci sia responsabilità dell’Autorità Palestinese se non altro per il fatto che i gruppi terroristi che vi agiscono sono spesso composti o almeno guidati da membri delle sue forze di sicurezza, che hanno evidentemente una via libera per la violenza contro Israele, confermata da propaganda, stipendi, glorificazione dei morti in queste attività criminali e delle loro famiglie. 

     

    La radice è politica

     

    Le ragioni vanno cercate nella politica. L’Autorità Palestinese è tutta impegnata a mostrare che esiste ancora, che gli accordi di Abramo non hanno superato la vecchia ricetta delle trattative con concessioni solo dalla parte israeliana. È aiutata in questo dall’amministrazione Biden, dall’Unione Europea e dalla volontà del governo di minoranza attuale di Israele di essere accondiscendente nei confronti di questi ultimi. Dunque un certo tasso di terrorismo sta bene a Mohamed Abbas (ma anche a Biden e all’UE), perché indebolisce Israele anche nei confronti dell’Iran. D’altro canto Abbas ha ottantasette anni, è notoriamente affetto da uno stato di salute precario e non gli rimane molto tempo di comando e di vita. Non ha un erede indiscusso. Tutto quel che avviene in campo palestinista dev’essere dunque visto alla luce per la lotta per la sua successione. Infine, il governo israeliano è debole, si è dimesso dopo aver perso la maggioranza alla Knesset, e fino a un paio di mesi dopo le elezioni del 1° novembre non ce ne sarà uno capace di funzionare a pieno titolo. È vero che i servizi di sicurezza funzionano sempre e sono relativamente autonomi dal vertice politico; ma è chiaro che la risposta israeliana in queste condizioni può essere solo quella ordinaria, senza un progetto strategico.

     

    Una nuova intifada?

     

    Ogni volta che il terrorismo arabo cresce in Israele, qualcuno parla di “intifada”. Si tratta di un termine arabo che vuol dire letteralmente “sussulto”, “scrollone” e che da qui ha preso il significato di ribellione generale e intensa contro Israele, sull’esempio delle ondate del 1987-93 e 2000-2002. Vi è anche nell’uso europeo di questa parola una connotazione sgradevole di eroismo, entusiasmo, rivoluzione, assai poco adatto al terrorismo vigliacco che caratterizzava già quei momenti ed è chiarissimo oggi. Nessuno può essere profeta in queste cose, ma oggi appare difficile immaginare l’evoluzione di questa ondata di violenza e terrorismo in una vera e propria sollevazione. L’origine locale, le ragioni politiche transitorie appena accennate, lo scarso entusiasmo di una popolazione che, al di là della propaganda verbale, non appare molto disponibile a sacrificare nella lotta la vita e anche il relativo benessere di cui gode (certamente inferiore a quello degli arabi israeliani, ma comunque molto migliore di quello dei paesi confinanti), l’esempio delle terribili conseguenze dell’anarchia in posti come Libano, Siria, Iraq, Yemen, sembrano ostacoli sufficienti allo scoppio di un’esplosione generalizzata di violenza, nonostante l’azione di Hamas, dell’Iran e degli altri terroristi che soffiano sul fuoco. Bisogna forse rassegnarsi a resistere a questa ondata di terrorismo a media intensità, che ormai comprende anche l’uso delle armi da fuoco.

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