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    L’estate romana di Avraham Abulafia,il cabalista che voleva convertire il papa

    Era l’estate 1280 e Avraham ben Shmuel Abulafia era arrivato a Roma con uno scopo ben preciso: parlare con il papa. Ci pensava dal 1270, quando, a Barcellona, l’idea gli si era affacciata alla mente per la prima volta.

    Il quarantenne filosofo aragonese giungeva da Capua, dove aveva studiato le opere di Maimonide, probabilmente sotto la guida del rabbino Hillel ben Shmuel di Verona; Hillel, da parte sua, era stato allievo per tre anni di rav Yonah Gerondi a Barcellona. 

    Il pontefice in carica era, allora, Niccolò III, al secolo Giovanni Gaetano (o Giangaetano) Orsini. Aveva 65 anni ed era stato eletto a fine novembre 1277, dopo che tre papi si erano succeduti in meno di tre mesi sul soglio di Pietro e in un momento in cui era podestà dell’Urbe – e perciò garante dell’ordine cittadino e anche della tranquillità dei lavori del conclave – uno dei suoi nipoti: Orso, figlio di Gentile che di Giangaetano era fratello. In precedenza, dal novembre 1262, Giangaetano aveva operato come inquisitore generale nel Viterbese; da cardinale aveva agito sempre con accortezza e tenacia, talora pure con spregiudicatezza, e non si smentì nemmeno nel suo nuovo ruolo. A meno di tre mesi dalla sua intronizzazione, infatti, Niccolò III provvide alla nomina di nove cardinali, dei quali tre erano suoi parenti stretti: Latino Malabranca era figlio di sua sorella Mabilia, Giordano Orsini era suo fratello per parte di padre, Giacomo Colonna gli era cugino perché figlio di Margerita Orsini; dei rimanenti, uno era il suo confessore e almeno un altro era persona cui il papa era legato da stretti rapporti di amicizia e interesse. Dante Alighieri qualche decennio dopo lo avrebbe collocato nella terza bolgia dell’ottavo girone infernale, quella dei simoniaci:

    «e veramente fui figliuol dell’orsa,

    cupido sì per avanzar li orsatti,

    che sù l’avere, e qui me misi in borsa.»

    (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XIX, 70-72).

    Niccolò III era inoltre, se non timoroso, quantomeno particolarmente attento a ciò che riguardava la propria incolumità: fu lui a ordinare la realizzazione del cosiddetto Corridoio o Passetto, che, in caso di pericolo, gli avrebbe consentito di abbandonare il Palazzo Vaticano e raggiungere il fortificato Castel Sant’Angelo in tempi brevissimi e minimizzando i rischi; e a Soriano nel Cimino si era fatto costruire, intorno a una struttura a torre preesistente, una massiccia roccaforte completamente circondata da una poderosa cinta muraria dotata di cammino di ronda. Fu proprio qui che andò a rifugiarsi quando gli fu comunicato che il filosofo ebreo aragonese era giunto a Roma per parlargli e gli chiedeva udienza: il papa rifiutò di vederlo, lasciò la città e fece pervenire ad Abulafia un messaggio in cui lo diffidava dal raggiungerlo; se avesse tentato di farlo – avvertiva lo scritto – sarebbe stato mandato al rogo.

    Avraham non era un energumeno, né aveva cattive intenzioni. Nel primo dei suoi libri profetici, il Sefer HaYashar (“Libro della Rettitudine”) che aveva redatto a Patrasso all’inizio del 1279, vagheggiava il dissolvimento delle differenze tra ebraismo, cristianesimo e islamismo. Cosa voleva ottenere dal pontefice, o cosa voleva dirgli? Sul punto, sappiamo solo quanto lo stesso Abulafia ci riferisce (e Moshe Idel riporta) e cioè che il suo scopo era quello di discutere con il papa di “ebraismo in generale”.

    Sta di fatto che Niccolò fuggì e che Avraham, nonostante le minacce, si recò anch’egli a Soriano. Vi arrivò qualche giorno prima del capodanno ebraico del 5041, perché si riprometteva di parlare al pontefice proprio alla vigilia di quella festività; ma appena egli giunse in paese, il papa, all’interno della sua fortezza, spirò: tanto repentinamente che i suoi domestici non ebbero nemmeno il tempo di chiamargli un confessore. Era il 22 agosto 1280. “L’episodio – commenta Idel – suona come una leggenda popolare, ma le cronache del Vaticano e la documentazione storica relativa alla scomparsa di Niccolò III confermano il racconto di Abulafia”. 

    L’aragonese fu arrestato e poi – è egli stesso a riferirlo nel suo Commento al Sefer Ha‘edut – liberato senza spiegazione alcuna due settimane dopo. Lasciò subito Roma alla volta della Sicilia, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.

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