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    Parashà di Shelàkh: Spie o turisti?

    Questa parashà descrive il viaggio dei dieci esploratori nella terra di Canaan e quello che avvenne al loro ritorno. Il testo inizia con queste parole: “L’Eterno parlò con Moshè e gli disse: Manda per tuo conto degli uomini a esplorare il paese di Canaan che do ai figli d’Israele; manda un uomo per ogni tribù paterna e ognuno di loro sia una persona di rango elevato. Moshè li mandò dal deserto di Paran, secondo il comando dell’Eterno; erano tutti leader dei figli d’Israele (Bemidbàr, 13: 1-3).

                Moshè diede loro le seguenti istruzioni: “Salite verso il nord nel Neghev e poi continuate nella regione montana. Guardate com’e il paese, com’è il popolo che vi abita, forte o debole, poco o molto numeroso; se la regione abitata è buona o cattiva, se le città dove abita sono aperte o fortificate; se il suolo è fertile o magro, se vi sono alberi o no” (ibid., 17-20). 

                Al loro ritorno essi diedero il loro rapporto e il popolo, impaurito, rifiutò di proseguire verso la terra di Canaan. La conseguenza fu disastrosa e il popolo d’Israele dovette rimanere per altri trentotto anni nel deserto fino a quando una nuova generazione di giovani, cresciuta nel deserto sotto la guida di  Moshè, con fede nell’Eterno e senza paura, attraversò il fiume Giordano condotti da Yehoshua’. 

                R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia, 1512-1585, Cracovia) che fu rabbino a Cremona, dedica ben tre capitoli (21-23) nella sua opera Ma’asè Hashèm a commentare questo episodio. Quando Moshè chiese agli esploratori di verificare se la terra era buona, non lo fece per verificare gli accessi più facili per l’esercito. L’Eterno aveva parlato a Moshè  della terra “che do” perché non sarebbe stato necessario combattere. L’entrata nel paese sarebbe avvenuta con l’intervento miracoloso dell’Eterno come era accaduto nell’uscita dall’Egitto. R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta che Calev, per controbattere le opinioni degli altri otto esploratori disse che i cananei erano pronti a evacuare il paese per timore degli israeliti (ibid., 14:9) come avvenne molti anni più tardi quando gli aramei fuggirono abbandonando per strada abiti e oggetti buttati nella fretta della fuga” (II, Mekakhìm, 7:15). Moshè quindi non mandò gli esploratori a scopo militare. Egli li mandò al fine di sapere dove sarebbe stato più opportuno entrare nel paese in modo da lasciare donne e bambini in un’area salubre. 

                Gli  esploratori, con l’eccezione di Yehoshua’ e Calev, vedendo che dovunque passarono vi erano dei funerali, interpretarono la cosa in modo negativo dicendo che “la terra divorava i suoi abitanti” (ibid, 13:32). Calev invece disse che questa era invece una prova che l’Eterno voleva il loro bene e per questo vi era una elevata mortalità presso i cananei.   

                R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit) in Hearòt ve-He’aròt (p. 162) commenta che gli esploratori nel dare il loro rapporto non mentirono. Essi diedero però un’interpretazione negativa di quello che avevano visto ed arrivarono alla conclusione che salire nella terra d’Israele fosse pericoloso. 

                Quale fu la colpa degli esploratori? R. Ashkenazi afferma che la colpa degli esploratori fu quella di dare il loro rapporto al popolo che era facilmente impressionabile e non a Moshè che li aveva mandati. Infatti, trentotto anni dopo, quando Yehoshua’ mandò due spie a Gerico egli lo fece in segreto e anche quando essi tornarono con ottime notizie, diedero il rapporto solo a Yehoshua’ e non a tutto il popolo. Gli esploratori di Moshè non erano stati mandati per spiare. Infatti nel testo non appare la parola “meraghèl”, come nel libro di Yehoshua’ (2:1). In questa parashà è scritto “di mandare degli uomini a esplorare la terra di Canaan”. Nel testo è usato il verbo “ve-yaturu”. In ebraico moderno il sostantivo che deriva da questo verbo è “tayar” significa turista. La terra d’Israele era stata garantita dall’Eterno. Non c’era quindi bisogno di spie, solo di turisti!

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