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    Tripoli, quel giugno del 1967

    È ancora buio e mamma mi sveglia come solo una mamma sa fare, i miei fratelli si stanno vestendo. È tutto strano, la casa è in disordine piena di valigie aperte, nonna mette le ultime cose dentro e papà l’aiuta a chiuderle. Mamma che succede? Mi risponde con un sorriso triste sulle labbra: Si parte, si va a Roma. È già giorno ma le persiane rimangono chiuse anche se filtra il sole, tutto pronto, noi ci siamo lavati, vestiti e abbiamo fatto colazione, però siamo silenziosi, un po’ tristi. Papà sta molto al telefono e noi tutti in attesa, noi bimbi percepiamo e assorbiamo il nervosismo e la preoccupazione dei grandi.

     

    Finalmente arriva sotto casa un pullman color argento, è lucente al sole, ha sulla fiancata un disegno in blu di un arco che scaglia una freccia. Le nostre valigie vengono messe nel vano portabagagli, saliamo e io mi siedo dietro l’autista arabo. Ha lo sguardo severo e rivolgendosi a un tizio vestito di beige gli dice che non partirà se gli ebrei non scenderanno dal mezzo. Il signore cerca di convincerlo, poi perde la pazienza e gli dà un ceffone. Gli ordina di muoversi, gli dice che sennò lo ammazza. Noi guardiamo la scena in silenzio, l’autista si caccia in testa con forza il cappello a visiera e parte.

    Avevo sempre percorso con piacere quel tratto di strada con il filare di alte palme, ora il nastro d’asfalto nero è diventato uno scenario di guerra, negozi bruciati con le vetrine sfondate, belle automobili americane rovesciate e messe di traverso sulla strada. Sulle facciate dei palazzi ogni tanto vedo finestre bruciate che sembrano occhi pesti, le vie sono stranamente deserte.

     

    Appena arrivati all’aeroporto, siamo assaliti da una bolgia di gente e da tanti poliziotti e soldati. Donne, bambini, vecchi e uomini tutti vicino ai propri bagagli con la speranza di riuscire a passare la dogana, ognuno per sé e Dio per tutti, la gente piange stringendo al petto le proprie cose. Fa un caldo soffocante, chiedo a mia madre quando partiremo, quando lasceremo questo inferno. Lei mi fa cenno di non parlare, mi dà una carezza e mi rassicura dicendomi: presto, molto presto. Ma io so che non è vero, sono molte ore che aspettiamo.

    Finalmente è il nostro turno, tutta la famiglia è riunita intorno al tavolo con le valigie aperte. Il poliziotto chiede a mamma perché tutta quella roba per una vacanza. Lei risponde calma che andremo al mare in Italia e poi in Svizzera in montagna. Chiede sarcastico: Siete ebrei? Mamma gli risponde guardandolo fisso negli occhi senza perdere la pazienza. Si, siamo italiani ebrei. Ci lasciano passare, ma papà resta indietro a guardare mentre superiamo la vetrata e ci dirigiamo verso l’aereo.

     

    Perché papà non viene con noi? Mia madre si gira, vede mio padre in lontananza ancora lì dove ci ha lasciato e mormora: ci raggiungerà dopo, deve rimanere a lavorare. In seguito, verrò a sapere che mio padre, come centinaia di ebrei che volevano fuggire da quel caos, non aveva il visto d’uscita sul passaporto.

     

    Sul piazzale ci sono molti aerei, la maggior parte ha sulla carlinga lo stesso logo del pullman e sulla coda i colori della nostra bandiera. Noi ragazzini saliamo la scaletta di corsa e, per chi arriverà primo, prenderà il posto vicino al finestrino.

     

    L’aereo rulla faticosamente sulla pista e si alza lasciando una lunga scia di fumo nero. Appoggio il viso all’oblò, vedo scorrere le case bianche e le belle terrazze della mia città, il verde degli alberi. D’un tratto appare la costa bianca e abbagliante al confine con il mare blu come il petrolio, Tripoli diventa sempre più piccola fino a scomparire. A scomparire per sempre.

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